Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2015
1869, l’annus horribilis del Regno d’Italia
Si viveva in «tempi storpi». Non i nostri: qui si parla del 1869, annus horribilis per il Regno d’Italia, devastato da tensioni e drammi formidabili.
Il Paese, unito da poco, era in preda a crisi molteplici: internazionale (Roma da ricongiungere alla madrepatria); interna (venire a capo di debiti enormi); di legittimità (il Parlamento percepito come un oggetto misterioso, luogo di slanci retorici e di bassa cucina). Arianna Arisi Rota, storica del Risorgimento all’Università di Pavia, cuce queste diverse linee di frattura in un one year book documentato e appassionante, che finisce per concentrarsi sulla storia del deputato garibaldino Cristiano Lobbia, vittima designata di quella temperie “bizantina” (definizione di Giosuè Carducci). La ricerca si apre con un’Italia in ebollizione, a causa della tassa sul macinato, cioè sulla farina, introdotta dalla Destra per far tornare i conti di un bilancio malconcio.
Insurrezioni vere e proprie, quasi prove generali di guerra civile, costellano le campagne e le città, costringendo il governo alla repressione. In un’atmosfera resa elettrica dalla miseria, scoppia il caso della Regìa cointeressata dei Tabacchi, un’operazione finanziaria condotta dal ministero Menabrea per assicurarsi certezza di gettito a fronte della privatizzazione dell’appalto: storie classiche dell’Italia di allora, e non solo. Naturalmente, a fungere da appaltatori sono – guarda caso – banchieri e finanzieri già ampiamente sperimentati in altri lucrosi (per loro) affari ferroviari. Insomma, i soliti noti. Ma, questa volta, c’è qualcosa di più: giornali radicali, come il «Gazzettino rosa» di Milano, espressione di un garibaldinismo infiltrato da temi sociali e reattivo rispetto al clima di “smobilitazione culturale” che si respira nel Paese, accusa l’ambiente dell’esecutivo di corruzione. Sarebbero circolate somme considerevoli, che addirittura lambirebbero Vittorio Emanuele. L’occasione è ghiotta per l’opposizione, ma Francesco Crispi, anziché andare subito al sodo, alla Camera traccheggia e allude: la sensazione è quella di un outsider in cerca di legittimazione, piuttosto che di un capo disposto alla battaglia. Di qui lo sconcerto dei suoi – la Sinistra militante – appena reduci dall’esecuzione di Monti e Tognetti ad opera del papa-re (1868), dalle rivolte del macinato, dalla lenta emorragia di tanti “ex” garibaldini, attratti dal sistema.
Il 5 giugno 1869, alla Camera – siamo a Firenze, capitale dal 1865 – Cristiano Lobbia, ingegnere e camicia rossa di Asiago dal curriculum immacolato, annuncia di avere «dichiarazioni» convalidate da un notaio circa i «lucri» percepiti da un deputato nelle contrattazioni per la Regìa cointeressata. Nel momento in cui ci sarà una commissione d’inchiesta, promette, li renderà pubblici. Sensazione generale, seguita dalla consueta “macchina del fango” giornalistica, il cui epilogo, appena successivo al varo inevitabile della commissione d’inchiesta è il tentativo, il 15 giugno, di uccidere a pugnalate il Lobbia medesimo, consumato in circostanze misteriose in via dell’Amorino, centro di Firenze. «Tutti si domandano se siamo in Tunisi», annota un altro deputato dell’opposizione, Giorgio Asproni, sul suo diario. Ben presto, però, succede qualcosa d’inaspettato.
Da un lato, la marea della mobilitazione estremista, che tracima nelle piazze, provando a saldare antiparlamentarismo e protesta sociale nel nome della Repubblica e di Mazzini, non smuove in profondità il corpo apatico del Paese e subisce uno smacco definitivo. Dall’altro, fin dal 19 giugno, in ambienti di Sinistra circola la voce che obiettivo degli inquirenti sarebbe quello di dimostrare la tesi della simulazione da parte di Lobbia. La voce si fa realtà e, da vittima, l’ufficiale garibaldino diventa imputato: a novembre gli danno un anno di carcere. Ci vorrà più di un lustro per dimostrare l’aberrazione di quella sentenza, rovesciata in assoluzione definitiva solo nel 1875. Troppo tardi: l’ingegnere soldato di Asiago muore l’anno dopo.
Nella seconda metà del 1869, d’altronde, il clima pare mutato: l’apertura del canale di Suez e l’anticlericalismo anti-conciliare sviano l’attenzione dalla suburra parlamentare e finanziaria. I rivoluzionari hanno perso la loro occasione; la Sinistra è uscita malconcia dalla commissione d’inchiesta, perché poi i famosi fatti non ci sono stati; solo la Destra pare essersi momentaneamente rigenerata, consegnandosi alla guida di un presidente del consiglio onesto, ostile al carrozzone affaristico della Regìa cointeressata: Giovanni Lanza. Con lui, i cavouriani settentrionali fermano l’affarismo disinvolto della consorteria toscana.
Il 1869, minuziosamente ricostruito da Arianna Arisi Rota, diventa così un anno di snodo: l’incubatore di tanti stereotipi e di tante dinamiche dell’Italia futura, dall’estremismo ai “bidoni” ai danni del contribuente; dalla retorica giornalistica all’uso politico della magistratura; dalle tasse alla difficoltà di conservarsi puri in un pantano. L’epitaffio migliore lo scrisse forse Marco Minghetti, Destra emiliana, il giorno di Santo Stefano del ’69: «L’Italia è come quei giovani che si trovano in mezzo a debiti e strettezze. Se a furia di sagacia, di attività e sacrifizi arrivano a pagare i creditori, diventano uomini rispettabili. Se invece cominciano a fare qualche porcheria, sdrucciolano giù per la china e diventano farabutti... Noi siamo anche a tempo di seguire la buona via, ma il tempo stringe, diversamente ripeteremo in peggio i casi della Grecia e della Spagna». In politica, allora; in economia, oggi.