Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2015
Teheran e il petrolio ai tempi della guerra
Quanto conta l’oro nero in questa guerra? Molto, ma non è quello del Califfato a essere determinante come si crede. Il ministro iraniano Bijan Zanganeh ha presentato a Teheran i nuovi contratti petroliferi alle major, Eni inclusa, e al battaglione delle 200 imprese italiane guidate dal viceministro dell’Economia Carlo Calenda.
È una sorta di rivoluzione per un Paese che ne ha già avuta una, quella islamica del 1979, e che offre qualche spunto di riflessione sul conflitto del Levante. Il petrolio in Medio Oriente paga tutto, ovviamente anche le guerre, e condiziona ogni cambiamento, nel bene e nel male.
Il Califfato riesce a produrre ottimisticamente dai 6mila ai 10mila barili al giorno, lo deve vendere a metà del prezzo corrente (sotto i 20 dollari al barile) e incassa meno che con le tasse islamiche (la zakat al 10%) e i taglieggiamenti che impone a una popolazione di 10 milioni di persone. La produzione del Califfato è infinitesimale rispetto a quella dell’Iran sciita, nemico giurato dei jihadisti sunniti: Teheran attualmente esporta 1,3 milioni di barili che diventeranno 500mila in più dopo la cancellazione delle sanzioni, oltre naturalmente agli introiti del gas, dove è secondo al mondo per le riserve.
Se si guardasse la guerra all’Isis con la lente petrolifera, il Califfato l’avrebbe già persa: non ha nessun controllo su oltre il 90% della produzione dell’Iraq (4milioni di barili al giorno), situata in gran parte nel Sud sciita. Mentre la produzione siriana è crollata a poche migliaia di barili sotto i colpi dei bombardamenti a impianti e raffinerie dove la manutenzione è affidata a esperti della compagnia statale di Damasco che presumibilmente porta a casa qualche barile per Assad mentre i jihadisti esportano oro nero in Turchia. Il petrolio condiziona il futuro politico del Siraq. Anche se dopo la fine del Califfato ci si accordasse per far nascere uno stato sunnita a cavallo di Siria e Iraq, questa entità avrebbe risorse petrolifere assai limitate e non paragonabili a quelle di Baghdad o del Kurdistan iracheno. Un problema non da poco per chi vuole cambiare le frontiere del Medio Oriente definite nel 1916 dall’accordo anglo-francese di Sykes-Picot. È il petrolio che determina l’andamento delle società mediorientali, la fortuna e la disgrazia di intere nazioni. Proviamo a immaginare una penisola arabica senza greggio: forse ci sarebbe la democrazia persino in Arabia Saudita, portabandiera dell’oscurantista islam wahabita.
«Con le entrate dell’oro nero è la società che ha bisogno del Governo per vivere, non il Governo della società per sostenere l’economia. I cittadini non pagano tasse: lo stato non ne ha bisogno e quindi non ha bisogno di loro. Alla democrazia serve la partecipazione della gente e finché avremo il petrolio non sarà possibile», spiega Mohsen Kadivar, religioso e filosofo iraniano che da giovane fu protagonista della presa dell’ambasciata americana durante la rivoluzione dell’Imam Khomeini.
L’affermazione di Kadivar riporta a quella che fece tanti anni fa Re Hussein di Giordania quando gli fu chiesto se davvero avevano trovato oro nero ai confini con l’Iraq: «Per fortuna, no», fu la sua risposta secca: il petrolio avrebbe fatto del regno hashemita l’obiettivo di nuovi appetiti e incontrollabili interessi. Il petrolio determina la nuova geopolitica mediorientale. La produzione americana di petrolio nel 2014, secondo la World Oil and Gas Review del’Eni, ha superato persino quella dell’Arabia Saudita e la Russia si prepara a diventare il primo produttore mondiale. Questo Medio Oriente, dove gli Usa hanno condotto nel 2003 una guerra in Iraq dagli effetti devastanti, non riveste più molto interesse per Washington se non per un fattore: controllare la Russia e i flussi energetici verso la Cina.
È in questo quadro bellico che arriva la “rivoluzione iraniana” dei contratti. Il ministro del Petrolio iraniano Bijan Zanganeh è ottimista: in ballo ci sono 50 progetti per un valore di 100 miliardi di dollari e questa volta Teheran ha in mano la leva giusta per attirare gli investimenti stranieri. Per la prima volta le major del “crudo” avranno una quota dell’oro nero che producono, in poche parole più ne estraggono e più guadagnano. «È un modello win-win, con vantaggi per tutti e prevede joint venture con trasferimenti di tecnologia», spiega Zanganeh e supera il precedente contratto di buy back, il quale prevedeva che l’Iran pagasse una quota fissa alle compagnie per ogni barile estratto, senza compensazioni per le aziende che spendevano più del previsto per lo sviluppo di un giacimento.
Ma più guadagni e più petrolio significano anche più lotte interne nella corsa all’oro nero. Il ministro Zanganeh di recente ha duramente attaccato gli intermediari che «succhiano il sangue alla nazione» invitando gli investitori ad aggirarli riferendosi direttamente al governo e alle istituzioni. In realtà, in vista della fine delle sanzioni dopo l’accordo sul nucleare, si è aperta una concorrenza interna tra Fondazioni religiose, Pasdaran e istituzioni governative per decidere che strada prenderà la Repubblica islamica. Al centro c’è la concorrenza per il controllo delle risorse, dei contratti, degli appalti: è il petrolio bellezza, direbbe il saggio filosofo Kadivar.