Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2015
Verso un’economia di mercato. La questione cinese e le soluzioni possibili
La Cina non è un’economia di mercato. Né lo sarà l’11dicembre 2016 quando scadrà il sub-paragrafo 15(a)(ii) del protocollo di accessione alla WTO, che la definisce appunto come un’economia non di mercato. Allo stesso tempo, lo status attuale dell’impero di mezzo garantisce ai paesi importatori margini di discrezionalità molto elevati nell’adottare misure anti dumping che, pur avendo il sacrosanto obiettivo della salvaguardia delle produzioni nazionali, devono evitare di dare luogo ad ingiustificate azioni protezionistiche.
La delicatezza delle relazioni commerciali e politiche con la Cina e l’evoluzione dell’economia e delle istituzioni del paese nei quindici anni di appartenenza alla WTO dovrebbero dunque indurre a molta cautela nell’identificare le misure da adottare entro il dicembre 2016. Qualunque sia la soluzione, non sarà né politicamente possibile né economicamente corretto ragionare in termini dicotomici, economia di mercato sì o no. Lo spazio per soluzioni intermedie flessibili c’è e va sfruttato al meglio. Come procedere dunque?
Intanto, perché la definizione è così cruciale? Nel caso di economie di mercato la valutazione dell’esistenza di un comportamento di dumping da parte di un’azienda (esportazione a prezzi sotto-costo), viene valutata sulla base dei costi effettivi di quell’impresa nel paese in cui produce. Se un’economia è non di mercato, invece, dato che i prezzi domestici sono distorti, si deve ricorrere ad altri parametri, come per esempio i costi di produzione in altri economie di mercato ad un simile livello di sviluppo. Per la Cina, ad esempio, si potrebbero applicare i costi di produzione del Brasile. Per quanto non sia possibile identificare altre procedure convincenti, questo meccanismo dà facilmente luogo a valutazioni aleatorie e può diventare una potente arma protezionistica. Ad esempio non è chiaro quanto la richiesta da parte di molti produttori di acciaio del vecchio continente alla Commissione Europea di avviare un’azione antidumping verso la Cina sia effettivamente mossa da un dumping di prezzo o piuttosto dalla necessità di proteggere un’industria comunque afflitta da sovracapacità nelle economie mature.
Detto questo, se a partire da fine 2016 venisse riconosciuto lo status di economia di mercato, diventerebbe molto più difficile attivare azioni di difesa nei confronti di un paese con un’economia comunque ancora molto distorta. L’intreccio tra comando e mercato rimane tale. La crescita delle imprese Cinesi dipende certo dalla capacità di essere competitive, ma anche da condizioni di contesto garantite da una classe politica intrusiva che ha ancora moltissime leve per favorire i propri produttori e per concedere vantaggi non compatibili con le regole della libera concorrenza. Dunque, il riconoscimento immediato dello status di mercato darebbe in effetti alle imprese cinesi un vantaggio non equo.
E allora? Economia di mercato sì o no? La soluzione sta probabilmente nella media via. Il quadro è comunque molto diverso di quello di quindici anni fa. L’industria cinese é a un difficile punto di transizione verso le produzioni ad alto valore aggiunto. I margini competitivi immensi, dal basso costo del lavoro al dumping ambientale, si sono erosi considerevolmente. Questa transizione verso la produttività elevata rende i cinesi meno minacciosi, nel senso che dovranno competere su terreni a noi più favorevoli, con le nostre stesse armi: qualità, tecnologia, produttività. Questa considerazione oltre all’effettiva maggiore diffusione del mercato indotta dalle riforme, potrebbe portare a trattare la questione del dumping con un approccio caso per caso. Ossia garantire lo stato di mercato solo ad imprese o settori dove effettivamente le distorsioni sono limitate, e invece continuare a mantenere le procedure non di mercato dove chiaramente persistono distorsioni. Questo approccio darebbe anche un forte incentivo alle autorità Cinesi ad accelerare la transizione verso il mercato, alla ricerca di fattori di competitività veri e non dovuti alla benevolenza della classe politica.