La Stampa, 29 novembre 2015
A proposito della parola “negro” e di un libro della Pivano in cui questo termine oggi proibito ricorre di continuo
Quando una sessantina di anni fa Fernanda Pivano scrisse questo libro (Lo zio Tom è morto, Bompiani) poi rimasto nel cassetto, con scarso credito per l’editoria italiana dell’epoca, non si peritò nell’impiego di una parola che già un paio di decenni dopo avrebbe probabilmente avuto qualche esitazione a usare. Il fatto è che a quei tempi da noi un negro era ancora un negro, come un albino era un albino, un biondo era un biondo, uno scozzese era uno scozzese, un arabo era un arabo, un ebreo era un ebreo. Di tutti questi, solo «negro» sarebbe poi diventato, nell’italiano corrente, un termine offensivo. Questa fu una conseguenza artificiosa della diffusione dei film americani e, paradossalmente, dei progressi verso quella pacificazione dei rapporti tra le etnie della quale così eloquentemente la Pivano denunciava i ritardi.
Per la verità, in inglese «negro» non è mai stato una parolaccia, ma negli Usa il termine da esso derivato, nigger, veniva usato come dispregiativo. Quando nigger cominciò a comparire sempre più spesso nel cinema di Hollywood in bocca a bianchi prevaricatori – mentre si adottava un atteggiamento di maggiore simpatia nei confronti degli americani di colore – gli importatori dei film, nei panni dei traduttori dei dialoghi (si chiamano adattatori), dovettero affrontare un problema. La nostra lingua non prevedeva un epiteto offensivo verso chi aveva la pelle scura. Non che noialtri italiani fossimo così aperti alla fraternizzazione. Ma non trovandosi nel territorio nazionale preoccupanti agglomerati di simili individui, consideravamo i rari esponenti di tale diversità con un sorriso indulgente: faccetta nera, bongo bongo.
Al doppiaggio ci si ingegnò allora di salvare senso ed esigenze del sinc infilando due parole da dire velocemente al posto di una: «sporco negro». C’erano però due sillabe in più, scomode nei primi piani. Ben presto dunque l’insulto diventò semplicemente «negro», però detto con una intonazione di disgusto. Intanto negli Usa venivano aboliti dalla conversazione civile prima nigger (se non in bocca a personaggi da disapprovare), quindi negro, per poi arrivare alla sostituzione di negro, troppo simile a nigger, con black. Black avrebbe poi retto per qualche lustro prima di arrendersi ed essere rimpiazzato, è ancora presto per dire se definitivamente, da African American. Noi ci siamo supinamente rassegnati a mettere al bando, per imitazione, l’innocuo «negro», avendo anche spiegato ai suoi destinatari che non dovevano accettarlo. Però non siamo andati tanto lontano. Infatti adesso dobbiamo dire «nero», che poi etimologicamente è la stessa parola.
Così a un lettore del 2015 questo «negro» che capita in quasi ogni pagina potrebbe suscitare reazioni istintive di stupore e di indignazione. Andando avanti peraltro costui dovrà abituarsi, via via che constaterà come questo libro oltre a essere rimasto estremamente attuale ci comunica qualcosa anche sul momento storico in cui nacque. (…)
Quando la Pivano scriveva, le tensioni razziali erano ancora molto flagranti, la segregazione di fatto vigeva ancora in parecchi Stati, in ampie zone del Paese alla gente di colore era impedito di votare, la pratica del linciaggio non era tramontata. Col senno di poi non ci meravigliamo delle deflagrazioni che sarebbero avvenute di lì a poco sotto la presidenza di Kennedy, Johnson e successori. Retrospettivamente Martin Luther King, Selma e Montgomery non ci sorprendono: mentre la generosa panoramica offerta dalla Nanda dei fermenti nella nascente letteratura dei discendenti degli schiavi ci prepara al conferimento nientemeno che di un Nobel a un’autrice afroamericana.
Insomma, per concludere tornando alla sostanza del riscoperto libro. Nella chiarezza e nella completezza delle informazioni e delle valutazioni qui abbiamo la migliore introduzione possibile agli avvenimenti del mezzo secolo successivo, compresi quelli ancora in fase di svolgimento adesso. È un antefatto che copre tutto l’arco dell’evoluzione della presenza forzata degli africani nel Nordamerica, e sotto ogni aspetto, compresa la nascita e gli sviluppi di una cultura assai originale, particolarmente nella musica; ed è raccontato con ricchezza di dati, agilità e chiarezza, accompagnate dalla nota sotterranea di un umorismo cui solo ogni tanto ma sempre ineccepibilmente (quando ci vuole, ci vuole) viene permesso di trasformarsi in sarcasmo.
Sono doti preziose e largamente presenti, nonché subordinate a un’altra ancora più pregevole, vale a dire l’obiettività: obiettività conquistata tenendo sotto controllo una passione che sotterraneamente percorre e riscalda tutto il volume. Questa obiettività – non ho detto distacco! – è particolarmente opportuna davanti a una materia rovente come questa, uno dei più flagranti tra i crimini perpetrati nell’età moderna contro una fetta dell’umanità, durato ben quattro secoli. Materia che ha spesso alimentato pamphlet vibranti di indignazione; ma piuttosto che aggiungerne un altro alla lista, la nostra rimpianta americanista ha preferito lasciar parlare i fatti – il maggior numero di fatti compatibile con dimensioni che aspirano all’agilità, e con eleganza la raggiungono.