la Repubblica, 29 novembre 2015
Roma e la Città del Vaticano, rumore contro silenzio. La tappa odierna di Gabriele Romagnoli
Seguo un angelo e arrivo in cielo, sopra due capitali: d’Italia e del cattolicesimo. Con i piedi per terra, in realtà, ma dove non è spesso dato poggiarli: non di fronte o sotto, ma sopra al colonnato di piazza San Pietro. Si è aperta una porta su una balconata e davanti ci sono le due città, opposte: Roma e il Vaticano. Una italiana, l’altra extraterritoriale. Da una parte il caos, dall’altra il silenzio. Là il tumulto degli sconfinamenti che sfilacciano qualsiasi perimetro, qui l’ordine delle geometrie che più di ogni altra figura riassume il triangolo. Di qua dal Tevere manco un sindaco, di là due papi. Pari sono soltanto i complotti, ma come possa inscriversi in Roma la Città del Vaticano è un mistero paragonabile a un postulato di Euclide: così è e provatevi, semmai, a dimostrare il contrario.
Ci sono pochi privilegi al mondo di cui conserverò memoria e i più sono legati allo sguardo. Avere visto. Avere visto il solstizio nei canyon delle avenue di Mahnattan, il nastro di sabbia che si srotola sulla costa di Wilderness in Sudafrica, i funghi di gesso nel deserto bianco dell’Egitto. E questo cielo sopra Roma, dal Vaticano. A sfregiare la bellezza è prima di tutto l’ignoranza: indifferenza o arroganza sono soltanto conseguenze. Basterebbe guardare e ascoltare. L’angelo mi racconta storie e raccontare una storia è un dono, che va reso anello di catena: voce soave del verbo tramandare.
Indica, a un certo punto, la finestra chiusa della stanza che era abitualmente del pontefice, quella dell’appartamento a lui destinato, dove papa Francesco non abita. Questa è, almeno a prima vista, la storia di un’assenza. Di un papa che manca alla sua sede e si trasferisce altrove, salvo attraversare all’improvviso il cortile con la sua borsa, mandando in crisi l’apparato di sicurezza. Tutta la piccola città nella città è spiazzata dallo spostamento laterale di quello che dovrebbe essere il suo centro di gravità e baratterebbe volentieri il dono della sorpresa con l’eredità della certezza. Eppure io continuo a stupirmi di più di un’altra scelta: quella del papa che se n’è andato. Pensavo si potesse dimettere un ministro sotto inchiesta, un allenatore strapazzato, ma un papa? Col tempo mi sono reso conto che si stava compiendo un rovesciamento dei ruoli: a stupirsi delle dimissioni erano più i laici dei credenti, così come a essere attratti dal successore di Benedetto XVI, in un esatto ripetersi delle proporzioni. Dopodiché, andando nel mondo Francesco è stato dal mondo fagocitato e troppo spesso tratteggiato come un peronista della fede o un Martinazzoli che cerca di sanare una bianca balena ferita da se stessa.
Mi sono ricordato di padre Alessandro, il frate olivetano che celebrò un mio lontano matrimonio. Nei colloqui precedenti la cerimonia volle sapere perché non credessi e avessi tuttavia accondisceso al rito. Nella confusione della gioventù cercai di spiegare che non riuscivo ad accettare l’idea di un dio tanto antropomorfo, interessato a concetti umani, troppo umani come il bene e il male. Ascoltò in silenzio e poi concluse: ti aspetti troppo da dio. Lo guardai senza capire: posso limitare le aspettative su mio zio o su un direttore, ma su dio come potrei? Sorrise dicendo qualcosa del tipo: dio è in un altro modo, che non possiamo concepire, c’è ma è...
Usò un aggettivo che ho compreso solo ventotto anni dopo, al fondo del percorso in Vaticano, lungo quei corridoi raffaelliti che ti fanno abbassare gli occhi come investiti da troppa luce e per il bisogno di manifestare una forma di rispetto, e se non genera pudore l’arte, che altro? Il palinsesto della quotidianità?
Scende la sera e si svuotano le sale: guardie cortesi al passaggio dell’angelo accompagnano con lo sguardo gli ultimi turisti mentre in punta di piedi valichiamo la soglia dell’erga omnes ed entriamo nella cappella sistina dal lato impossibile, dopo aver semplicemente bussato (e vi sarà aperto). Un lungo sguardo e oltre, attraverso una porta, alla “stanza del pianto”, dove l’eletto accetta, fa bruciare le schede che producono la fumata bianca e indossa i paramenti. In un angolo c’è un mobile di un metro per sessanta centimetri, a occhio: lo scrittoio su cui papa Francesco ha firmato dopo l’elezione a pontefice, c’è la penna con cui l’ha fatto. Lui non c’è, né qui né nell’appartamento a cui era destinato. A sera il buio a quella finestra rattrista chi ha bisogno di immaginarlo. Eppure. Mi ritorna in mente padre Alessandro, con la sua faccia da frate manzoniano, mentre diceva: «Dio è in un altro modo, che non possiamo concepire... perché è immanente».
Non sono mai riuscito a credere, ma ho creduto a questo: a quel che non c’è ma non è assente. A quel che dei sogni resta, al soffio dei trascorsi, al disfarsi della storia. Al sacrificio di molti, all’esempio di pochi, al passo di uno che appare e scompare nella notte di due città, immanente. L’unica volta in cui raccontano che dio si sia reso presente, l’hanno crocefisso.