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 2015  novembre 29 Domenica calendario

Alejandro Amenábar, ovvero il talento di raccontare storie horror

ROMA. COME SPESSO ACCADE, ANCHE IL TALENTO horror di Alejandro Amenábar si è nutrito delle paure di bambino. «La notte non potevo neppure andare in bagno da solo, ero sempre molto turbato. E non ho una spiegazione razionale per tanta angoscia, a meno di non provare a rintracciarla in un’origine per così dire ideologica. Vede, io sono nato nel 1972 a Santiago del Cile, dove mia madre – che triste ironia – era venuta a rifugiarsi dalla guerra civile spagnola. Fuggimmo a Madrid
quindici giorni prima del golpe di Pinochet».
Le immagini dei telegiornali, la drammatica situazione dei familiari rimasti in Cile, in buona sostanza «l’orrore della realtà» il piccolo Amenábar deve averla sublimata attraverso l’amore per il cinema di genere poi coltivato per caso – o per destino: «A Madrid i nostri vicini avevano un videoregistratore e una sterminata collezione di videocassette. Horror. A casa loro ho visto film che mai i miei mi avrebbero permesso di guardare: L’esorcista, The Omen, The Changeling. Pochi giorni fa ho incontrato un mio vecchio compagno delle elementari. Mi ha ricordato di quando mentre lui e gli altri della nostra classe guardavano Sesame street io ero già alle prese con Alien. A dodici anni ho sfidato me stesso restando a dormire un sabato in collegio, da solo, perché tutti gli altri nel weekend tornavano a casa. Quella notte i fantasmi non si manifestarono ma deve essere stato da allora che ho pensato di esorcizzare la paura mettendomi finalmente dall’altra parte di una macchina da presa».
Prima Tesis (1996), poi Apri gli occhi (1997), quindi
The Others (2001) e ora Regression: «L’horror ormai fa parte del mio Dna, è stato del tutto naturale per me tornare a girarne uno». Regression sarà nelle sale italiane da giovedì. Qui l’ex maghetta di Harry Potter, Emma Watson, è una ragazza che denuncia al detective Ethan Hawke gli abusi subìti da una setta demoniaca.
«Da anni pensavo a un film sul diavolo, ma non trovavo mai l’approccio giusto. Ho cucito una storia che tenesse insieme il demonio, i labirinti della mente umana e la psicosi collettiva». La vicenda è ambientata durante gli anni Novanta «quando il fenomeno delle sette era lo spauracchio del nord America. Per lo stile invece ho guardato ai thriller americani anni Settanta: Rosemary’s baby, Il maratoneta, Tutti gli uomini del presidente. Mi interessava esplorare i demoni interiori piuttosto che le spaventose entità che hanno sempre popolato il genere. E dunque Regression è un film sulla menzogna, e sulla manipolazione, affrontate a tre livelli. Quello attivo: menti a una persona. Quello interiore: menti a te stesso. Quello collettivo: un’intera società viene fuorviata. Più che la capacità di mentire mi sconvolge la volontà di credere che ha l’essere umano».
Il rapporto con la fede è una delle componenti forti del pensiero e del cinema di Amenábar: «Vero, tutti i miei film dialogano con la religione. Come raccontavo prima sono cresciuto in un collegio cattolico, in Spagna, e conosco bene quella cultura. I miei problemi con la fede si sono sviluppati di pari passo con i miei film. Quando ho fatto The Others ero diventato agnostico e quando ho girato Mare dentro (2004) mi sono reso conto che ero diventato ateo. Ovviamente non per questo mi sento meno spirituale. Mi piace pensare che c’è qualcosa oltre a noi, anche se non è quello che mi hanno insegnato».
Mare dentro raccontava dell’eutanasia che il protagonista tetraplegico, Javier Bardem, insegue per ventotto anni: «Girare quel film è stata un’esperienza straordinaria, ha costretto tutti noi ad affrontare spietatamente sul set il tema della morte, ci ha cambiati profondamente». Ad alleggerire la tensione ci pensava lo stesso Bardem: «Ogni giorno escogitava uno scherzo assurdo», e per la prima volta questo quarantasettenne malinconico riesce a ritrovare il sorriso. «Un giorno ha comprato un aggeggio che simulava il rumore di un peto, lo ha nascosto nel letto e ha iniziato ad attivarlo durante le riprese. Eravamo tutti piuttosto imbarazzati...».
Nonostante o forse anche grazie agli scherzi di Bardem, fatto sta che Mare dentro ha vinto l’Oscar: «Inutile negare, è un momento straordinario. Ci investi talmente tanto tempo ed energie che quando sei lì tremi al solo pensiero: “E se ora non succede?”. Vincerlo è stato un sollievo. E poi la statuetta è fantastica! Chiunque venga a casa mia, chiunque, a un certo punto vuole che gliela mostri e vuole farsi una foto. Con lei! E anche senza di me! Poi, dopo l’Oscar, arriva una cosa che si chiama fama e allora capita che ti ritrovi a chiederti perché qualcuno voglia per forza farsi fare una foto con te. Del resto io mi ricordo bene di quando a una cerimonia incontrai il mio idolo, il compositore John Williams: corsi letteralmente da lui per chiedergli un autografo e poi ebbi il coraggio di dirgli solo “ciao”. E quando Spielberg mi invitò con Tom Cruise sul set di un suo film? La sera prima non riuscii a dormire per l’emozione. È uno dei miei numi, Spielberg, insieme a Kubrick e Hitchcock. Da adolescente guardavo i suoi film in modo compulsivo».
S’illumina: «Qualcuno, non necessariamente io, dovrebbe rifare Gli uccelli: era un film magnifico e oggi potrebbe avvantaggiarsi dei grandi progressi negli effetti speciali. Anche se comunque l’originale è ancora capace di catturarti malgrado qualche trucchetto ormai datato. Io avevo pensato al remake di
Andromeda, di Robert Wise, ma poi ci hanno fatto una serie, e quella non è roba per me: non mi tenta nulla che duri più di quattro puntate. Solo l’idea di cinque serie di dodici episodinon mi fa sentire per niente a mio agio».
Amenábar convive dolcemente con i successi ma anche con i fallimenti. The Others, il film che lo ha lanciato, lo cataloga come «un momento pieno di ansia: la mia prima volta in inglese, la prima volta di Nicole Kidman in Spagna, attori bambini. Il momento migliore fu quando in una pausa portammo tutti alle giostre». Del grande fallimento, Agora (2009), sulla vita di Ipazia (con Rachel Weisz) dice: «Sono orgoglioso di averlo fatto, con la crisi di oggi nessuno finanzierebbe un’opera come quella. Certo, forse un po’ troppo piena di cose: storia, religione, astronomia, vicenda personale...». Anche con la sua sessualità ha fatto i conti. Ormai rilassato davanti a un cappuccino gigante, guarda la pioggia che batte sul giardino segreto vicino a piazza del Popolo e ci racconta il percorso interiore che lo ha portato, qualche anno fa, a dichiarare pubblicamente la sua omosessualità. «Sono stato un ragazzo represso, come tanti nella nostra società. In famiglia non ho mai sentito un commento sbagliato, ma nell’ambiente cattolico in cui ho studiato sì. Ma è stato solo una volta arrivato all’università che mi sono confidato con il mio migliore amico, etero, ed è stato lui che mi ha portato per la prima volta in un locale per gay. Mi trovai perfettamente a mio agio».
Poi però, appunto, arriva la fama «e quando diventi un personaggio pubblico di solito non ne parli. Finché non ce l’ho fatta più. Durante le interviste per Mare dentro continuavano a chiedermi cose tipo: “Com’è la tua donna ideale?”. Io non me la sentivo più di fingere di essere qualcosa che non ero». Il coming out gli ha regalato una nuova libertà e la consapevolezza di aver fatto qualcosa di giusto, non solo per se stesso. «Ricordo in particolare una sera in un pub. C’era un ragazzo sulla sedia a rotelle. A un certo punto vedo che cerca di avvicinarmi. Ho pensato volesse parlarmi di Mare dentro, e invece mi ha detto: “Grazie, perché quando ho letto che ti eri dichiarato mi hai dato il coraggio di fare altrettanto e dire la verità ai miei genitori”».