la Repubblica, 29 novembre 2015
La parola a Thom Yorke dei Radiohead, che suona oggi a Parigi all’apertura del Congresso sul clima. «Non faccio politica perché non sono capace di rendere tutti felici»
«No, non esattamente. Ma, appunto, voleva essere un esperimento. Era una reazione a tutto quello che stava succedendo. Si parlava solo e sempre di Spotify. Volevo dimostrare che in teoria oggi uno può seguire tutta la filiera della produzione discografica, dall’inizio alla fine, per fatti suoi. In teoria. Ma in pratica è molto diverso. Non ci si può accollare tutte le responsabilità della discografia. Ma sono contento di averlo fatto, di averci provato».
Lei come ascolta la musica?
«Soprattutto con Boomkat (negozio online specializzato in musica elettronica, ndr). Non uso certo YouTube. Sebbene… un mio amico mi diceva di questa app per saltare la pubblicità su You-Tube. E la cosa bella è… no, non l’accesso alla musica gratuita, la cosa divertente è che YouTube ha detto “Ehi, ma così non vale”. Capisci, loro dicono che non vale. Loro che mettono pubblicità prima di qualsiasi contenuto facendo un sacco di soldi e gli artisti non vengono pagati o vengono pagati cifre ridicole – e a quanto pare questo per loro va benissimo. Se invece non ne traggono profitto allora no, non vale».
Oltre ai concerti, tra streaming, download, copie fisiche di cd, radio… Da dove vengono i maggiori profitti oggi per un musicista?
«Non lo so, ditemelo voi. Non ho la soluzione a questi problemi. So solo che si fanno soldi con il lavoro di molti artisti che non ne traggono alcun beneficio. Si continua a dire che è un’epoca in cui la musica è gratis, il cinema è gratis. Non è vero. I fornitori di servizi fanno soldi. Google. YouTube. Un sacco di soldi, facendo pesca a strascico, come nell’oceano, prendono tutto quello che c’è trascinando. “Ah, scusate, era roba vostra? Ora è nostra. No, no, scherziamo, è sempre vostra”. Se ne sono impossessati. È come quello che hanno fatto i nazisti durante la Seconda guerra mondiale. Anzi, quello che facevano tutti durante la guerra, anche gli inglesi: rubare l’arte agli altri paesi. Che differenza c’è?».
A causa di questi problemi non si finisce a parlare sempre di dispositivi e contenitori e poco di contenuti artistici?
«Non sono bravo con queste cose, mi viene un mal di testa del cazzo. Ultimamente ho tirato fuori tutti i vinili che avevo. Roba collezionata in una vita intera. Perché è tantissima roba e devo organizzarla, buttare via le schifezze e tenere il resto. E con ogni singolo vinile c’è un rapporto, anche fisico. Come quando faccio il dj: c’è questo contatto diretto, devi prendere il disco, selezionarlo, metterlo in una borsa, e mettere le borse sul taxi e poi tirarle giù e aprirle, eccetera. Non esiste questo rapporto con i supporti digitali, le chiavette usb. E questo finisce per avere un effetto corrosivo su come viene realizzata la musica. Mio figlio di quattordici anni ha letto il libro di David Byrne con le sue considerazioni sulla musica e mi ha detto: “Perché non lo leggi anche tu? Ti potrebbe interessare”. Quando Byrne si è schierato contro Spotify è stato un sollievo per me. Ah, finalmente, non sono più l’unico a dire “ehi, scusate, non è giusto che questa cosa funzioni così”».
Quindi alla fine il prossimo album dei Radiohead con che modalità sarà pubblicato?
«Non lo so, non ne ho idea, dovreste chiederlo al mio manager. Io non saprei nemmeno da dove iniziare. Anzi, se ve lo dice, poi aggiornatemi sulla situazione...».
Ormai le sue esibizioni live ricordano il teatro danza. Li studia prima i suoi movimenti?
«No, sono un pessimo ballerino. Improvviso. Da ragazzo mi piaceva ballare. Oggi faccio yoga. Una o due ore al giorno. Mi serve, mi rigenera, mi aiuta ad affrontare le difficoltà della vita».
L’ultima musica che ha realizzato, all’inizio dell’anno, è stata la colonna sonora del documentario “The Uk Gold”, sulla finanza britannica.
«Robert “3D” Del Naja dei Massive Attack e io l’abbiamo realizzata perché eravamo impegnati con la gente del movimento “Occupy” a Londra. Sono contento di essere stato coinvolto, perché il documentario è scioccante: praticamente ci spiega che la ragione per cui Londra ha tanto potere nel mondo è perché è diventato un centro di riciclaggio di denaro dei paradisi fiscali».
Da tempo lei è in prima fila nella battaglia per la salvaguardia all’ambiente: vede progressi ?
«Non so, credo però che quanto meno stia cambiando la percezione del fenomeno. Rispetto a qualche anno fa oggi i paesi si stanno rendendo conto che iniziano a vivere sulla propria pelle gli effetti dei mutamenti climatici. George Monbiot, lo studioso ambientalista inglese con cui parlo spesso, dice che dovremmo tassare il business del petrolio. Mentre tutti i paesi cercano solo di raccogliere le foglie che cadono, siamo ancora lì che usiamo il petrolio. Non dovrebbe più essere così conveniente. Non è giusto che il combustibile per i voli non sia tassato. Non è possibile che convenga prendere il pesce in Canada, portarlo in volo in Cina per lavorarlo e poi riportarlo in Canada. Nel 2009 sono andato alla Conferenza per i cambiamenti climatici di Copenhagen: nessuno voleva prendersi responsabilità. Dal summit hanno cacciato via le ong, è stato folle. Ma ormai anche le industrie dell’energia dicono “per favore abbiamo bisogno di un accordo, così non possiamo andare avanti”. Dobbiamo sperare e fare di tutto perché con Parigi qualcosa possa davvero cambiare. Io suonerò la chitarra».
Anche Björk è tornata a esporsi per la causa ambientalista in Islanda. Non pensa che i musicisti possano fare politica anche attivamente?
«Ma allora secondo questo discorso andrebbe bene anche Kanye West come presidente? “Chi volete? Donald Trump o… Kanye West?”. Mah... Il problema della politica è che devi far felici tutti. E io sono pessimo in questo».