la Repubblica, 29 novembre 2015
Non si chiama più “telelavoro” ma “smart working“ (per esempio a Vodafone)
ROMA. Già si fa. Se non proprio nei termini voluti dal ministro Poletti, con formulazioni ad essi molto vicine.
La tecnologia ha già rivoluzionato il rapporto fra lavoro e luogo di lavoro. Che ora possa crollare anche la definizione di «orario» non è che un dettaglio. Lo chiamano «smart working» e in Italia ha già diversi adepti. Una sorta di evoluzione del «vecchio» telelavoro perché – recitano i manuali – non si tratta solo di svolgere da casa le mansioni un tempo legate alla presenza in ufficio: ci si basa su una maggiore «autonomia, flessibilità e collaborazione del lavoratore al fine di ottimizzare produzione ed efficienza». Maggior produttività, minor costo del lavoro, risparmio di tempo e riduzione della produzione di Co2, sottolinea un rapporto del Politecnico di Milano.
«Si lavora meglio» sintetizzano alla Vodafone Italia, una delle prime aziende in Italia ad applicare lo «smart working». Il progetto, dopo una fase sperimentale di due anni, coinvolge stabilmente 2.500 dipendenti dei 3.500 che, volendo, potrebbero richiederlo. Ciascuno di loro, su base volontaria, può scegliere «con maggiore autonomia spazi e strumenti di lavoro per un massimo di un giorno a settimana». Lavorare da casa senza chiedere un giorno di permesso in attesa dell’idraulico o risparmiandosi il traffico del mattino, nell’ottica – dicono in azienda – «di focalizzare sui risultati e non sulla presenza fisica». Funziona per il marketing, le conference-call, l’assistenza, non per i punti vendita a diretto contatto con il pubblico (gli addetti sono esclusi dal progetto). I 2.500 dipendenti che lo scelgono con regolarità sono distribuiti in pari misura fra uomini e donne. Per gli «smart worker» l’azienda non prevede né incentivi, né penalizzazioni e, in teoria, il concetto di orario di lavoro resiste. I dipendenti sono tenuti a rispettarlo, ma ammettono in azienda, «il cambiamento di mentalità è enorme».
Certo il fatto che Vodafone produca servizi aiuta, ma la possibilità di lavorare in «modalità remota» si può estendere anche alle aziende manifatturiere. In Italia, per esempio, esperienze simili si fanno – fra i grandi gruppi – alla Microsoft, in Intesa San Paolo, ma anche Barilla e General Motors, nello stabilimento GMPowertrain di Torino. «In alcuni casi sono previste da accordi sindacali, ma nella maggior parte dei casi le aziende procedono da sole», dice Marco Benti- vogli, leader dei metalmeccanici della Cisl, che da tempo predica la necessità di rinnovare il sindacato in previsione di una «Industry 4.0». Convinto che il tema «sia fondamentale nel rinnovo dei prossimi contratti collettivi». Il sindacato insomma «deve giocare d’anticipo, per fare in modo che le produzioni restino o tornino».
Il passaggio decisivo verso la «nuova era» sarà quello che permetterà una maggiore applicazione dello «smart working» nelle aziende manifatturiere, oltre che in quelle di servizio. «Quel mondo è già qui», dice Bentivogli. «L’Internet delle cose permette un dialogo da macchina a macchina: la manutenzione può già avvenire senza limiti di spazio e tempo».
Ma sul lavoro e sulla produzione «smart» l’Italia, rispetto all’Europa, fa i conti con un digital divide ancora troppo alto e con la dimensione medio piccola della stragrande maggioranza delle aziende. Secondo una ricerca del Politecnico di Milano sul «lavoro agile» l’Italia si piazza al 25esimo posto, su 27 nazioni (Croazia esclusa).
In testa a tutti c’è la Germania, che già sta lavorando ad un protocollo assieme al governo cinese («made in China 2025») per integrare la potenza dell’industria di Pechino con l’information technology tedesca.