Corriere della Sera, 29 novembre 2015
Napoli com’era e (malinconicamente) com’è. Un libro di Francesco Barbagallo
«Fino alla Grande guerra Napoli è ancora una capitale europea. Dopo non lo sarà più». Finisce così, con un pizzico di malinconia, il bel libro di Francesco Barbagallo, storico di fama che sulla sua città molto ha scritto. Ora Laterza pubblica Napoli, Belle Époque che si potrebbe forse definire una «narrazione storica», un nuovo tassello che arricchisce le opere di rilievo di Barbagallo, su Francesco Saverio Nitti, sulla storia della camorra, sulla modernità squilibrata del Mezzogiorno d’Italia.
Un’altra citazione, pagina 131: «Nell’Ottocento e nel primo Novecento Napoli era ancora una città di grande bellezza». E poi: allora una enorme massa di popolo e plebe affollava anche i quartieri del centro ed era dedita a mille mestieri.
Non manca un’autocritica. Barbagallo racconta come, tra Ottocento e Novecento, Napoli sia stata anche una grande capitale culturale, con la sua famosa Università, l’Accademia Pontaniana, il Circolo filologico fondato da Francesco De Sanctis, le grandi riviste di Nitti, «La Riforma Sociale» e di Benedetto Croce, «La Critica», oltre alle numerose grandi biblioteche, i teatri, i giornali, la musica, il cinema. E aggiunge: «Sembra giunto il momento di rivedere i giudizi troppo critici, espressi anche da chi scrive, sulle classi dirigenti napoletane nell’Italia liberale perché, nonostante i loro evidenti limiti sul terreno politico amministrativo e delle iniziative industriali, il confronto con le classi dirigenti del settantennio repubblicano va tutto a vantaggio dei bistrattati aristocratici e borghesi della Belle Époque, che a Napoli non si svolgeva solo nel Salone Margherita con le belle sciantose».
E in quella comparazione tra passato e presente viene in mente il massacro del mondo di oggi che Francesco Rosi ha raccontato nel suo film Le mani sulla città e vengono in mente le pagine del Mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, del Resto di niente di Enzo Striano, di Mistero Napoletano di Ermanno Rea.
È un’impresa non facile raccontare Napoli anche per chi ne conosce le viscere. Francesco Barbagallo è riuscito a farlo con rigore, senza noia accademica. I personaggi grandi, il Croce, Arturo Labriola, Giustino Fortunato, ma anche quelli che al loro tempo ebbero influenza ed esercitarono potere senza lasciare eredità e con loro gli uomini e le donne privi di nome, la plebe, la piccola borghesia, rivivono, segnati dai caratteri e dal costume del tempo. (Spicca il racconto del grande amore di Benedetto Croce, i vent’anni di vita appassionata con Angelina, la bellissima Donna Nella che morì nel 1913 lasciando il filosofo in una cupa disperazione).
Agli inizi del libro siamo nei decenni di fine Ottocento, tra l’ennesimo colera, nel 1884, la prima pietra della legge del Risanamento posata nel 1889 da Umberto I. Ci fu allora furia di fare: si costruì la funicolare di Chiaia e quella di Montecalvario, fu isolato il Maschio angioino, liberata la piazza del Municipio, nacque la galleria Umberto, di fronte al teatro San Carlo, con il Salone Margherita che non avrà nulla da invidiare al Moulin Rouge e alle Folies Bergère. Le sciantose erano famose come i calciatori oggi, Armand d’Ardy (‘A frangesa), Lilly Freeday, Lina Cavalieri, Cléo de Mérode, «Le diseuses dalle voci smaglianti, le scatenate gommeuses del can-can». Con le loro mosse e mossette fecero perdere la testa a borghesi doviziosi, a ufficiali dell’esercito regio, a aristocratici. Fra gli altri, anni dopo, a Emanuele Filiberto di Savoia, duca d’Aosta, comandante della X Armata di stanza a Napoli.
La vita pareva correre, la festa di Piedigrotta era conosciuta nel mondo, come le canzoni, Funiculì Funiculà, Te voglio bene assaje, Era di maggio di Salvatore Di Giacomo e Mario Costa. L’industria della canzone napoletana era fiorente.
Anche la retorica dei figli di mamma gonfiava la musica del golfo. «I figli sono figli» e basta, come nella commedia di Eduardo De Filippo, Filumena Marturano. La madre mediterranea aveva a Napoli il suo porto sicuro protetto dallo stereotipo dei «mangiatori di maccheroni» nel paese di Pulcinella che piaceva tanto soprattutto agli stranieri.
Non tutto era rose e fiori. Ragazzetti pastori di 7-8 anni lavoravano 14, 15, 16 ore al giorno, con un salario minimo di 17 cent., «Piccoli proletari costretti ad andare al lavoro all’una dopo mezzanotte», scriveva «La Propaganda», settimanale socialista nato nel 1899. La crisi premeva, la corruzione dilagava, i capitali stranieri, belgi, francesi, del Nord Italia erano una ghiotta preda. Sugli affari pesava la camorra. Nel 1900 fu istituita una commissione d’inchiesta sui mali di Napoli presieduta dal senatore Giuseppe Saredo. È impressionante ritrovare nelle mille pagine della Relazione l’attualità del fenomeno: «Il male più grave, a nostro avviso, fu di aver fatto ingigantire la camorra, lasciandola infiltrare in tutti gli strati della vita pubblica e per tutta la compagine sociale invece di distruggerla, come dovevano consigliare le libere istituzioni. (...) Collo sviluppo della camorra, la nuova organizzazione elettorale a base di clientele, di servizi resi e ricambiati in corrispettivo del voto ottenuto, sottoforma di protezione, di assistenza, di consiglio, di raccomandazione, rese possibile anche lo sviluppo della classe dei faccendieri o intermediari, che nel periodo anteriore al 1860 erano già un elemento indispensabile per il traffico degli affari».
Contro l’inchiesta Saredo si scatenarono in molti. Tra i più eccitati Eduardo Scarfoglio, il fondatore e il direttore del «Mattino» che incitò i napoletani alla rivolta e insultò quelli del Nord «dagli occhi foderati di prosciutto». Fu un giornalismo becero il suo, che ha fatto scuola e seguita a farla. Come giudicava lo sciopero? «Uno scoppio di quello spirito tirannico delle plebi cui i capitalisti hanno il dovere di resistere».
Con quel suo quotidiano menar colpi da ogni lato, è esperto in avvertimenti e minacce, sempre immischiato nei giochi del potere, degli affari, delle clientele. Si firma Tartarin, ha un panfilo di 36,6 metri, è ricchissimo, «Non vi ha uomo al mondo, per povero che sia, che non possa avere uno yacht», ama dire. Insulta il re mentre sua moglie, la scrittrice Matilde Serao, sparge nei suoi celebri «Mosconi» miele e incenso sulla regina Margherita. È amico di D’Annunzio che ha sempre bisogno di soldi e pubblica sul suo giornale elegie, sonetti, saggi e una parte del romanzo Il trionfo della morte.
Barbagallo racconta con rigore e con minuzia lo sviluppo economico napoletano: la nascita dei grandi magazzini Mele, i tentativi di Nitti per un avvenire industriale della città fondato sull’energia elettrica. Il saggio si conclude negli anni che precedono l’inizio della Prima guerra mondiale quando viene meno la capacità mediatrice giolittiana e i conflitti di classe esplodono con violenza. Le lotte operaie lasciano allocchita la borghesia sorretta da Scarfoglio e dai giornali d’ordine. La guerra porta lavoro all’industria meccanica con le forniture militari, ma i napoletani, per il 90 per cento, sono contrari: «La guerra – scrive Barbagallo – si sarebbe rivelata un pessimo affare per Napoli e per tutto il Mezzogiorno. La spesa pubblica avrebbe sempre più privilegiato le aree già sviluppate del Nord, negli anni di guerra e della riconversione industriale del ventennio fascista».
È un libro serio, sereno, di grande contemporaneità questo Napoli, Belle Époque. Fa capire com’è antica (e sempre attuale) la lontananza dei governi dai problemi del Sud. Italia.