Corriere della Sera, 29 novembre 2015
L’anima e gli odori. In un ospedale romano esiste un olfattometro e la giornalista Anna Meldolesi l’ha provato
Fate processare a un computer dei dati e il risultato sarà sempre lo stesso. Che piova o splenda il sole, che si trovi in riva al mare oppure dentro a quattro mura. Il cervello no, può elaborare giudizi diversi se nell’aria c’è profumo di primavera o un cattivo odore. La differenza più eclatante fra l’oggetto che abbiamo dentro la scatola cranica e quello che teniamo in ufficio è proprio questa: il cervello ha un corpo, si lascia influenzare dai sensi anche a nostra insaputa, il computer no. Per provarlo partecipo alle ricerche sul ruolo delle emozioni nel decision making svolte dal gruppo di Raffaella Rumiati della Sissa di Trieste. In quest’ultima tappa del mio viaggio-inchiesta nel mondo delle neuroscienze passerò un’ora e mezza a rispondere a domande angosciose, mentre mi scansionano il cervello, sottoposta a stimoli di cui non sono consapevole.
La macchina per la risonanza magnetica funzionale si trova all’ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine. Mi sdraio sul lettino, tappi e cuffie per le orecchie attutiranno il rumore delle scansioni. Una specie di casco mi tiene ferma la testa, degli occhialini mi consentiranno di leggere le istruzioni per svolgere i compiti. Nelle narici ho delle cannule che serviranno a erogare sostanze odorose. Sono la prima persona a testare questo dispositivo detto olfattometro durante la risonanza magnetica. Con le dita della mano destra posso premere dei pulsanti e scegliere tra le possibili opzioni: questo o quello, sì o no. Nella mano sinistra stringo una pompetta da schiacciare nel caso mi venisse un attacco di panico. Non soffro di claustrofobia, per fortuna, ma qualche pensiero tetro arriva lo stesso mentre sto lì chiusa e sola, immobile. Per prima cosa la macchina fa una scansione stazionaria del mio cervello a riposo. Poi questa rappresentazione statica verrà confrontata con le immagini delle mie aree cerebrali alle prese con le decisioni dell’esperimento. L’emoglobina ha proprietà magnetiche diverse quando è ossigenata, perciò è possibile capire in quali zone si verifica un incremento del flusso sanguigno correlato all’attività neurale e tradurre i dati in mappe colorimetriche con l’aiuto di complesse procedure matematiche e statistiche. È così che nascono le foto dei cervelli in azione.
Il primo esperimento riguarda la valutazione dei rischi alimentari. Paolo Garlasco mi spiega che c’è stato un incidente nucleare, le falde acquifere sono contaminate e bisogna scegliere gli alimenti da acquistare cercando di minimizzare i contaminanti e massimizzare le calorie. Compro cioccolata e altri cibi confezionati. Da dove arriveranno queste banane? So cosa fare ma mi accorgo di compiere anche scelte irrazionali, che sarebbero bocciate da una valutazione a sangue freddo del rischio.
Sono ancora lì sdraiata e immobile, quando inizia l’esperimento sui dilemmi morali. Me ne vengono proposte innumerevoli varianti in cui sono chiamata a compiere scelte drammatiche. Sono un soldato e per evitare che il mio compagno ferito venga torturato dal nemico posso ucciderlo, lo faccio o no? Sì. Ora sono nascosta, il pianto di un neonato rischia di rivelare la nostra posizione e ci farà morire tutti. Lo soffoco? No. Gli scenari catastrofici si susseguono a ritmo incalzante: ora sono nel caveau di una banca mentre una bomba ticchetta, poi in compagnia di un collega di laboratorio che vuole vendere la nostra pericolosa scoperta a una potenza del male. Premo con un dito per dire sì, con l’altro per dire no. Muovo solo una falange ma sto lasciando morire o uccidendo virtualmente un sacco di gente. Sono come il pilota di un drone. Talvolta mi assumo la responsabilità personale di compiere un gesto che sacrifica un essere umano allo scopo di ridurre il numero complessivo delle perdite. Faccio una scelta utilitaristica, razionale. Altre volte lascio che sia la concatenazione degli eventi a uccidere. È la scelta deontologica, quella per cui il divieto di togliere la vita non prevede eccezioni. A livello emotivo è più facile da compiere, anche se è difficile sostenere che sia intrinsecamente migliore dell’altra. L’olfattometro intanto mi fornisce stimolazioni di cui non sono cosciente. Prima di cominciare ho compilato una serie di questionari sulla mia sensibilità al disgusto e sul mio mondo olfattivo. Valentina Parma ha saggiato la mia capacità di identificare gli odori, Cinzia Cecchetto ha misurato la mia soglia di sensibilità. Chissà se gli odori che vengono erogati a mia insaputa stanno influenzando le mie decisioni. Quelli cattivi mi rendono più intransigente? Se qualcosa sa di buono, probabilmente va bene e mi posso rilassare. I segnali olfattivi guidano gli animali nella scelta del cibo, attraverso il disgusto. Se ha ragione lo psicologo morale Jonathan Haidt, nell’uomo questa emozione è diventata anche una bussola per le intuizioni morali. I peccati sono sporchi, si sa, e la trasgressione stimola l’impulso a lavarsi. Lo chiamano «effetto Lady Macbeth», per l’ossessione che il personaggio shakespeariano dimostra per la pulizia dopo aver spinto il marito a uccidere il re.
La nostra mente emotiva è come un grosso elefante, afferma Haidt, mentre la componente razionale è il fantino che cerca di guidarlo a fatica. Studiare il potere dell’olfatto nella presa di decisione morale, come in questo esperimento, è un modo per raggiungere il nostro pachiderma interiore. Il trucco è seguire la sua proboscide.