Corriere della Sera, 29 novembre 2015
Le fabbriche italiane dove già oggi l’orario di lavoro non conta sono molte di più di quello che si pensa
Utilizzando il famoso esempio del dito e della luna in quest’articolo lasceremo da parte il primo (le polemiche attorno alle sortite di Giuliano Poletti) e ci occuperemo della seconda: dove le trasformazioni del lavoro stanno avvenendo in maniera più rapida e non ancora metabolizzata dal dibattito pubblico.
Le isole di montaggio
Cominciamo dalle fabbriche, come la Ducati citata dal ministro, perché «l’operaio lavora in uno spazio e con dei tempi che non sono dettati da una macchina». Secondo Luciano Pero, studioso di organizzazione del lavoro e docente al Politecnico di Milano in Italia, «esperienze come quella sono molto più diffuse di quanto si pensi e non solo nelle aziende a proprietà tedesca». Sono tanti gli operai e i tecnici che lavorano nelle isole in cui il tempo-macchina non è predefinito. «Cito l’Aermec che produce banchi frigo per supermercati e dove il montaggio viene gestito da un team che permette al singolo di auto-organizzarsi, di montare i suoi pezzi in autonomia e di aiutare il compagno se c’è la necessità. Situazioni così non sono mosche bianche». È difficile tirar fuori un dato statistico ma Pero garantisce che si tratta di un fenomeno in crescita e annovera la Fiat di Pomigliano tra le realtà più innovative. Il punto-chiave sta nell’autonomia di cui gode il team: se può ruotare le persone, se può distribuire i compiti tra una postazione e l’altra, se può fornire suggerimenti al management. «In Italia prevale una cultura del team informale, i tedeschi lo formalizzano». E si sviluppano esperimenti in cui la squadra gestisce persino i permessi dei singoli lavoratori e l’ingresso/uscita dalla fabbrica. La svizzera Endress-Hauser fa qualcosa del genere anche negli stabilimenti italiani.
I freelance
Dove il rapporto tra orario e prestazione di lavoro si presenta in forme dirompenti è nel mondo dei freelance. In Italia sono circa 300 mila, per lo più figure professionali del terziario (informatici, grafici, consulenti, etc.) che lavorano su commessa e hanno il problema di farsi pagare bene. I redditi medi dei freelance oscillano tra i 18 e i 19 mila euro annui mentre a parità di figura professionale un dipendente percepisce oltre 29 mila euro. «C’è una differenza di circa 10 mila euro lordi ai quali va aggiunto che la previdenza è totalmente a carico del lavoratore autonomo mentre il dipendente contribuisce solo per il 9% e anche dal punto di vista fiscale la no tax area per noi è più bassa» dichiara Andrea Dili, portavoce di Alta Partecipazione, un’associazione di freelance. Qual è il concetto c’è sta dietro queste cifre? I freelance offrono flessibilità al datore di lavoro ma avendo un rapporto negoziale debole con le grandi imprese non vengono remunerati il giusto. «Se prenoto un volo con una data fissa lo pago meno di un volo aperto. Nel lavoro non succede così, quello flessibile costa meno e i giuslavoristi, legati alla cultura del Novecento, hanno sempre legittimato questa differenza».
Il «lavoretti» della rete
I rapporti di forza tra offerta e domanda di lavoro sono ancora più sbilanciati in quello che l’Economist ha definito «lavoro alla spina» riferendosi ai lavoretti richiesti dalle piattaforme digitali come Uber. Spiega la sociologa Ivana Pais, autrice del libro «Il lavoro in rete»: «Stati Uniti e Italia restano per ora due mondi distanti. Lì piattaforme come Mechanical Turk di Amazon o Task Rabbitt offrono addirittura lavoro a minuti. Lavori cognitivi a basso valore aggiunto come data entry, sbobinature o trascrizione di testi oppure manuali come stirare le camicie». In Italia qualcuno ha provato ma non c’è riuscito mentre hanno avuto successo esperimenti che più che spezzettare mansioni/orari danno ai singoli lavoro aggiuntivo. È il caso di Gnammo o degli home restaurant, chi dispone di tempo libero può venderlo offrendo servizi con una forma di lavoro ibrido, metà autonomo metà dipendente. «Non è detto che in Italia si vada nella direzione del lavoro a spina. Le tendenze non sono chiare».
Il «lavoro agile»
Chiudiamo il lavoro agile, non legato per spazi e orari alla presenza fissa in azienda, fenomeno che il governo ha deciso di normare con una legge ad hoc. La diffusione è veloce e secondo Mariano Corso dell’osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano lo applica già il 17% delle aziende sopra i 500 dipendenti. Prendendo in esame i soli impiegati si può dire che il 10% in Italia già usa il lavoro agile. «Il vantaggio non è solo quello di responsabilizzare sui risultati ma di integrare maggiormente vita lavorativa e vita privata» dice Corso. Il 25% dei lavoratori italiani si dichiara insoddisfatto della rigidità dell’orario di lavoro e di conseguenza è disponibile a prendere in esame un nuovo tipo di scambio che «introduca nella relazione con il datore di lavoro anche l’elemento della fiducia reciproca». A quel punto più che il controllo dall’alto varranno altri parametri come, ad esempio, la soddisfazione del cliente. Corso pensa che lo smart working possa adattarsi anche al lavoro operaio e cita il caso di un’azienda di Modena, la Tetrapak, dove già è così.
(Al tema dell’orario di lavoro è dedicato anche il Fatto del Giorno)