Corriere della Sera, 29 novembre 2015
Avvocato dei curdi ucciso in Turchia mentre parla in televisione
DAL NOSTRO INVIATO GERUSALEMME Di fianco a un colonnato traforato di proiettili. A Diyarbakir, cerino sempre acceso nella polveriera curda, l’avvocato Tahir Elci aveva convocato le telecamere, annodato la cravatta verde e cominciato a parlare proprio lì: vicino ai muri bucherellati nel quartiere della Grande Moschea. Un luogo simbolico. Dove Erdogan era venuto solo due anni fa a promettere latte&miele, «carceri vuote e montagne pacificate». Dove da quattro mesi è saltata ogni tregua e ora ci sono quelle colonne come un gruviera, sangue&piombo. «Chiediamo che da quest’area rimangano fuori la guerra, i combattimenti, le armi, le operazioni militari…», aveva appena finito di dire Elci, 49 anni, leader degli avvocati curdi, applaudito da una quarantina di sostenitori. Da una macchina a un centinaio di metri, hanno cominciato a sparare in due. Qualcuno, dietro il minareto, ha visto anche un cecchino barbuto. La polizia ha risposto al fuoco, una sparatoria lunga. Finché gli assalitori non sono fuggiti e non si sono soccorsi i feriti, dieci, e raccolti i cadaveri, tre: due poliziotti e l’avvocato, centrato ad un occhio.
Le ultime immagini della vita di Elci, riprese nella concitazione, spiegano meglio delle interpretazioni sulla sua morte: s’intravvede un uomo che corre verso di lui. Ma per Erdogan «questo è un incidente – lo definisce così – che dimostra quanto sia nel giusto la Turchia, nella lotta determinata contro il terrorismo». E per smentire il suo vice Kurtulmus, a cui scappa d’ammettere il «brutale omicidio», è il premier Davutoglu a dire chiaro che l’attacco era alla polizia, che potrebbe essere stato un proiettile vagante: «Ci sono due possibilità. E una sola è l’omicidio». Ma quale incidente, gli risponde il partito curdo Hdp, questo è «un omicidio premeditato», ennesima intimidazione d’Erdogan: in diverse città e specialmente a Istanbul, a migliaia sono scesi subito in piazza – slogan: «Spalla a spalla contro il fascismo!» —, dispersi sul viale Istiklal da idranti e lacrimogeni. C’era più d’un motivo per eliminare Elci: nell’ultimo mese, contro di lui s’era scatenata una campagna governativa per un’intervista alla Cnn turca in cui aveva definito il Pkk curdo (fuorilegge) «non un gruppo terroristico, ma un’organizzazione armata con grande seguito». Frase imprudente. Il Pkk ha fatto 40 mila morti, da pochi mesi è finita la fragile tregua con Erdogan, facile trovare qualcuno che volesse fargliela pagare: Elci, arrestato per 24 ore, era in attesa del processo e rischiava sette anni per «propaganda terroristica».
Dei due fronti, quello curdo sembra premere a Erdogan sempre più di quello Isis. E se non si coprisse con l’ambiguo impegno a combattere lo Stato Islamico in Siria – su cui «le domande e i dubbi sono tantissimi», dice il ministro degli Esteri russo, Lavrov —, il Sultano difficilmente riuscirebbe a condurre la guerra a bassa tensione che da qualche mese ha riaperto col Pkk e con le opposizioni. La questione del jet abbattuto non placa Putin, che impone altre sanzioni e ora vieta anche di dare lavoro ai turchi in Russia, ma Erdogan vorrebbe chiudere rapido: «Sono veramente rattristato – si sforza di dire – vorremmo tutti che non fosse mai successo e spero non succeda più». Non si scusa, sia chiaro. E anche sul giro di vite interno non accetta interferenze, né che si vada oltre il generico «scioccante» con cui gli Usa condannano l’assassinio Elci. «Non insabbieremo l’inchiesta», promette Davutoglu. Una settimana fa, mentre guidava a Diyarkabir, al leader curdo Demirtas è andato in frantumi il lunotto dell’auto blindata. L’inchiesta è stata veloce: niente attentato, era solo un sasso vagante.