la Repubblica, 28 novembre 2015
Laurearsi a ventisei anni e mezzo con 105. Il boom dei fuori corso
Ora il ministro Giuliano Poletti dice che al 97 finale preso a ventun anni contrapposto al 110 e lode preso a ventotto, «che non serve a un fico», preferisce una laurea «presto e bene». È consapevole di quale ferita sia andato ad allargare con la sua frase alla Fiera di Verona, giovedì scorso. E adesso rintuzza: «Non ho mai pensato che i giovani italiani sianochoosy o bamboccioni» e di fronte alle critiche più acide – «è un perito agrario che parla di università» – ricorda: «Si è ironizzato sul fatto che non sono laureato, ma informo gli interessati che ho lavorato fin dall’infanzia, anche durante gli studi, e che ho interrotto l’università dopo aver sostenuto venti esami studiando di notte. All’arrivo del secondo figlio ho scelto di dedicarmi al mio lavoro e alla mia famiglia. Una scelta che mi ha dato molto più di una laurea».L’uscita ipercriticata di Poletti (da Cgil, studenti organizzati, gran parte del mondo accademico) allunga sul tavolo, tuttavia, un problema vero e contemporaneo: i laureati italiani arrivano tardi sul mercato del lavoro e, spesso, nella competizione globale perdono le gare. Secondo l’ultima indagine di Alma-Laurea – 2015 —, l’età media dei laureati italiani è di 26,5 anni (e la media tiene insieme coloro che raggiungono la laurea breve, tre anni, e quelli che arrivano alla magistrale, altre due stagioni). Alle matricole che compiono il percorso arrivando dalle superiori si affiancano i lavoratori che prendono il titolo in età adulta. Riesce a laurearsi entro i 24 anni il 48,6 per cento degli iscritti, il 24 per cento arriva al titolo tra i 25 e i 26 anni, il 27,5 oltre i ventisette. Come si vede, sette universitari su dieci si laureano entro i 26 anni. Le medienell’ultima decade sono migliorate. Nel 2005 l’età di laurea era di 27,3 anni, nel 2000 di 28. Il ritardo è sceso da 2,9 anni a 1,3. L’anno scorso il voto medio è stato pari a 102, dieci anni prima era di 103. Sembra già partito, seguendo quest’ultimo dato, il processo di velocizzazione del corso di studi, al prezzo di abbassare le medie (grazie a una preparazione inferiore). Il voto medio dei fuori corso, tra l’altro, non è il 110 citato da Poletti, ma 105.Ci si laurea in tempo (il 68,3 per cento)a Medicina e nelle Professioni sanitarie, discipline a forte vocazione dove il numero chiuso impone presto una selezione. Ci si laurea tardi a Giurisprudenza (solo il 28,9 per cento è in corso), Architettura (il 32,3) e Ingegneria (il 35,8). Secondo dati del 2013, le università italiane con il maggior numero di fuori corso sono state Cagliari (53 per cento), Catania (52), Basilicata (51), il Politecnico di Bari (49) e l’Università della Calabria (47). Gli atenei con più studenti regolari Venezia Iuav (76 per cento) e a scendere Milano Bicocca, Venezia Ca’ Foscari, Modena-Reggio Emilia e Pavia.I fuori corso italiani sono 700 mila: quattro su dieci sul totale e rappresentano un danno economico consistente per gli atenei che li ospitano. La logica del costo standard toglie alle università risorse. Il presidente di Alma-Laurea Ivano Dionigi, già rettore a Bologna, dice: «Il fuori corso è una piaga tutta italiana e segnala il fallimento della triennale, percorso che non offre una preparazione subito utile per il mondo del lavoro. I primi tre anni dovrebbero essere gratis: servirebbe un investimento da un miliardo e mezzo. I ragazzi vanno fuori tempo perché, per mantenersi agli studi, fanno i portieri di notte, i baristi».