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 2015  novembre 28 Sabato calendario

I giovani musulmani d’Italia e quel desiderio di sfasciare che prevale nettamente sulla spinta religiosa

Un minuto di silenzio per le vittime di Parigi, lunedì 16 novembre, nelle scuole francesi, in molte classi d’Europa, e pure all’Istituto tecnico Daverio di Varese. Ma al momento in cui s’è deciso di stare zitti, alle 11 in punto, la discussione in una delle prime è appena cominciata, e gli studenti vorrebbero altre spiegazioni: «Perché fermarsi per la strage del 13 e non per tutte quelle precedenti?». Scocca l’ora, non c’è tempo per il dibattito, sette ragazzi su 27 allora escono dall’aula e celebrano una cerimonia appartata «per tutte le vittime del terrorismo», dal Bataclan all’aereo russo fino al centro commerciale alla periferia di Beirut, senza dimenticare le centinaia di migliaia di morti in quattro anni di guerra in Siria. Del gruppetto fa parte anche una ragazzina italiana, che si è unita alle compagne alla guida della protesta, adolescenti musulmane. 
L’età della rivolta
Per i meccanismi dell’informazione, spesso casuali, la notizia è arrivata da questa cittadella lombarda di 1.300 studenti e una lunga storia di progetti di integrazione, scambi internazionali, cineforum, teatro, decine di provenienze diverse e bene amalgamate. «Mai un episodio di discriminazione o di disagio», rivendica la preside, Nicoletta Pizzato. Ma non ci sarebbe da stupirsi se fosse accaduto anche altrove in Italia. Così come in Francia ci sono stati studenti che non hanno voluto cantare la marsigliese o ragazzi di banlieue che già dopo l’attentato di gennaio hanno ostentato: «Io non sono Charlie Hebdo». Pericolosi terroristi? No, adolescenti. Indisponenti, immaturi, arrabbiati, alle volte incoscienti, spesso innocui. Non simpatizzano con l’Isis, ma percepiscono la vertigine, il fascino perverso che arriva da quel mondo estremo. 
Poi qualcuno, ogni tanto, nella trappola del Califfato cade. Inviata nella scuola superiore londinese dalla quale son fuggite tre sedicenni per unirsi allo Stato Islamico, la giornalista del New York Times, Katrin Bennhold, scopre che queste studentesse «erano intelligenti, popolari, provenienti da un mondo in cui la ribellione adolescenziale si esprime attraverso una religiosità radicale che mette in questione tutto quello che le circonda. In questo mondo, la controcultura è conservatrice. Il velo è liberatorio. Le barbe sono sexy». «Erano le ragazze che vorresti essere», le dice una studentessa 14enne. E a chiedere alle coetanee musulmane chi sono i maschi più cool del circondario la risposta è: «I fratelli che pregano». 
Moda e rivolta. Su questo aspetto ha insistito anche il noto orientalista francese Olivier Roy: «I giovani non si ribellano contro la società a causa dell’Isis – ha spiegato al Corriere —. Si rivolgono all’Isis perché è l’unica causa radicale sul mercato». Il desiderio di sfasciare prevale nettamente sulla spinta religiosa. E a cercare chi ha armi, potere distruttivo e capacità d’azione si finisce da Al Baghdadi. Negli anni Settanta i foreign fighters sarebbero forse entrati nelle Brigate Rosse o nella banda Baader-Meinhof. 
L’offerta radicale
C’è un rischio di semplificazione, certo. Ma anche il celebre sociologo italiano Marzio Barbagli riconosce che «è importante l’offerta». E dunque «esiste un’ipotesi che persone male adattate si attacchino alla religione come elemento identitario», fino al radicalismo. Tra il piccolo rigurgito anti-sistema dei ragazzini e l’adesione al Califfato dei combattenti, naturalmente, il cammino è lungo. E all’estremo si contano solo pochi marginali casi. Gli studi di sociologia ormai negli ultimi trent’anni hanno documentato anche in Italia «un fondamentale processo di assimilazione», sottolinea Barbagli. Che vale, ovviamente, pure per i musulmani. Col passare dei decenni, la società si uniforma, e il Paese di arrivo «vince». Si pensi al tasso di fertilità: le prime immigrate partorivano più bambini della media, poi anche questo dato s’è adeguato ai numeri bassi dell’Europa. 
Per le seconde generazioni, però, riconosce Barbagli, si apre una questione specifica, che riguarda la loro condizione a metà tra il mondo dei genitori e quello del Paese in cui sono nati (o arrivati da piccoli). Che siano islamici o meno, la questione della ricerca dell’identità è più sentita rispetto ai padri. Perché la prima generazione deve affrontare problemi pratici e urgenti di sopravvivenza, lavorare, farsi accettare, non creare attriti. Ma anche perché per i genitori «il gruppo di riferimento è quello del Paese d’origine, ci si confronta nei successi coi propri pari, rimasti in patria; e rispetto a loro in genere si è soddisfatti», spiega il sociologo. La seconda generazione si cimenta invece coi coetanei dei Paesi d’arrivo, «e il livello di aspettative cresce». Assieme al rischio di frustrazione. 
La ricerca dell’identità
È una preoccupazione anche per i Giovani musulmani d’Italia che dalla loro fondazione, il 23 settembre 2001, neanche due settimane dopo le Torri Gemelle, si son dovuti confrontare con le derive estremiste (e il montare dei pregiudizi). Osama al Saghir, 32 anni, cresciuto a Roma oggi deputato a Tunisi, ha fatto parte del gruppo dei pionieri. «C’erano fino ad allora associazioni giovanili, ma mancava un progetto unitario. Il nostro intento era mettere assieme le forze e aiutare i coetanei a risolvere il problema identitario nel contesto in cui siamo cresciuti». Un Islam «equilibrato e integrato» è possibile, e in 15 anni ha dato risultati, sostiene: «Ragazzi salvati dalla microcriminalità, dalla droga e anche dal radicalismo». Nonostante gli ostacoli, «all’interno della comunità islamica, ma anche da parte dello Stato». Il ritardo nella riforma della legge di cittadinanza (ora passata alla Camera) ha complicato il lavoro di «recupero», sottolinea, alimentando il senso di estraneità e di diffidenza. Più attenzione alle frange marginali, propone, dove attingono i terroristi per la bassa manovalanza, e anche interventi di psicologi specializzati: «Perché il più delle volte si tratta di persone fragili, vulnerabili». Che con l’Islam c’entrano poco. 
Meno pregiudizi e generalizzazioni, aggiunge Imane Barmaki, milanese, che nella stessa stagione del 2001 partecipava alla creazione del supplemento della rivista Vita, oggi blog, Yalla Italia : «Dopo l’11 settembre l’immagine dei musulmani nei media era di uomini barbuti e donne velate. Noi vogliamo andare contro quello stereotipo. Siamo i vicini di casa, i compagni di scuola, i colleghi di ufficio». Poco appariscenti, a volte poco praticanti. «Quelli che non fanno notizia, perché siamo la normalità». E la netta maggioranza.