Corriere della Sera, 28 novembre 2015
Erdogan e Putin, come ai tempi della Guerra Fredda quando Ankara e Mosca erano nemici in prima linea
Così uguali, così rivali. Il Putin turco, come lo definì una volta un giornale inglese, non smette di litigare con l’Erdogan russo. E sembra d’essere tornati ai momenti peggiori della Guerra fredda, quando Mosca e Ankara erano nemici in prima linea. Recep Erdogan non s’abbassa a scusarsi. Vladimir Putin non alza la cornetta per parlare. E si resta fermi alle 10 di martedì mattina, all’F16 turco che abbatte il Su24 russo e incrina un rapporto fino a poco fa, fino agli incontri novembrini del G20 di Antalya, fino all’inaugurazione settembrina della nuova moschea in Crimea, magari non d’amicizia, però di sospettoso rispetto sì. «Non scherzare col fuoco», avverte ora il Sultano. «Con te non parlo», gli risponde lo Zar. I due presidenti s’incrociano lunedì al vertice sul clima di Parigi. I loro ministri degli Esteri, poche ore dopo all’Osce di Belgrado. Che sia pace fredda o caldo rancore – fra due piccoli imperatori appaiati dallo stesso populismo, da una simile ambizione, da un comune antioccidentalismo e da un’identica commiserazione di chiunque s’opponga – dipende solo da loro.
Tanto gelo «sicuramente non ci aiuta», è un po’ preoccupato Staffan de Mistura, il mediatore Onu per la Siria. Su sollecitazione Nato, Erdogan ha tentato di chiudere il caso: chiamando Mosca 7 ore dopo l’abbattimento (ma senza ricevere risposta), giustificandosi («nessun Paese può cedere la sovranità, per reazione automatica abbiamo applicato le regole d’ingaggio: sapendo che l’aereo era russo, avremmo agito in modo diverso, ma per noi, poteva essere anche un piano d’Assad…»), lanciando segnali («a Parigi, potremmo sederci e parlarne faccia a faccia, riportare la questione a un punto ragionevole…»). Infine negando all’altro l’unica cosa che chiede, le scuse: «Putin pretende che consideriamo i suoi aerei “come ospiti”, ma non esistono ospiti non invitati. Il nostro spazio è stato violato. Faccia come noi, dimostri le sue ragioni con audio e radar. Invece, sentiamo solo accuse generiche e ingiuste». Dietro i toni, c’è una Turchia preoccupata. Che convoca l’ambasciatore di Mosca, protesta per gli insulti in aeroporto a 50 imprenditori, per i fantocci bruciati in piazza e i supermarket che equiparano chi acquista turco a chi finanzia l’Isis: non saltano gli accordi su gas e nucleare, per ora, ma in ballo fra i due Paesi ci sono affari per 44 miliardi di dollari l’anno.
Putin, no. Per contrappasso, lui mostra un’ira gelida che ricorda molto l’Erdogan offeso («voglio le scuse!») quando fu Israele, nel 2010, a sparare sulla nave turca Mavi Marmara che aveva sconfinato violando il blocco di Gaza. La sua linea è chiara: niente scuse, niente colloqui a Parigi. «S’è superato il confine dell’accettabile, Erdogan rischia di trascinare il suo Paese in una situazione complicata» e (parole del presidente della Duma) «abbiamo diritto a una risposta militare». Per cominciare, dal 1° gennaio tutti i turchi che vanno in Russia devono avere il visto. Si rivedono anche gli appalti per la moschea in Crimea. E si chiudono le importazioni agricole: il secondo partner commerciale di Ankara rinuncerà a vendere il grano e punterà di più su israeliani e iraniani. Quanto a una coalizione militare unica in Siria, dice Mosca, l’episodio dimostra che l’Occidente non è pronto. E forse è l’unica cosa su cui Erdogan concorda.