l‘Espresso, 27 novembre 2015
Il diario dell’imputato Fittipaldi
«Iniziamo. Lei è Emiliano Fittipaldi?». La voce del cancelliere del tribunale vaticano, un uomo con la faccia simpatica e la testa pelata, è appena percettibile. «È lei quello che ha scritto il libro “Avarizia”?». Faccio su e giù con la testa. È 16 novembre, la notte precedente non ho chiuso occhio. Forse perché avevo deciso a cena – dopo aver saputo di essere imputato dal Vaticano per «aver diffuso documenti riservati che mettono a rischio la sicurezza dello stato» – di presentarmi al primo interrogatorio con il magistrato del papa. Non ho nulla da nascondere, ho fatto solo il mio lavoro di cronista. Voglio capire di che cosa mi si accusa.
Nel grande salone siamo solo in tre. Io, il mio avvocato (rotale, gli unici accettati dalla giustizia pontificia) e il cancelliere. Il ticchettio dei tasti del computer si diffonde tra fregi di angeli e bassorilievi. «Bene. Come si chiamano i suoi genitori?». «Perché lo vuole sapere?». «Dottore qui in Vaticano è la regola. Oltre il nome dell’imputato dobbiamo conoscere anche quello dei suoi genitori. Le sembrerà strano, ma è la prassi. Come si chiamano?». «Arturo e Ornella De Miro», rispondo. Il cancelliere digita lentamente le nuove informazioni.
In “Avarizia” ho raccontato dettagli ed evidenze di scandali economici e finanziari della Chiesa ai tempi di papa Francesco. Storie imbarazzanti di lussi, sprechi e corruzioni deflagrate sui media di mezzo mondo quando, a due giorni dalla pubblicazione, Bergoglio ha dato il suo beneplacet all’arresto di due presunte fonti. «I corvi», li chiamano in Italia con disprezzo. Mentre penso alla similitudine tra i romanzi di Kafka e la vicenda in cui sono finito, sul fondo della stanza si apre di scatto una porta di legno. Entrano a passo svelto una mezza dozzina di persone: il comandante della gendarmeria, gli uomini che hanno condotto l’inchiesta su di me, in ultimo il promotore di giustizia, colui che nell’ordinamento vaticano ha il ruolo della pubblica accusa. Si avvicinano tutti alla scrivania, e mi salutano.
«Allora dottor Fittipaldi, lei è imputato per un reato molto grave. Diffusione di notizie e documenti riservati». Pena prevista da 4 a 8 anni, ormai lo so a memoria. «Capisco il vostro punto di vista» rispondo «ma il mio mestiere è quello di pubblicare i segreti che il potere, qualsiasi potere, vuole tenere nascosti. Faccio il giornalista, e ho scritto solo la verità. Nessun rigo delle 212 pagine di “Avarizia” è stato smentito, o sbaglio?». Il promotore sorride, prende un foglio e una penna. «Ora le farò qualche domanda». Vuole conoscere il nome delle mie fonti. Chiede come mai i documenti segreti dello Ior, la banca vaticana, sono finiti in mio possesso. Chi mi ha aiutato a procurarmi le carte dell’Apsa, l’ente che amministra tutto il patrimonio immobiliare della Santa Sede. Chi e come ho avuto relazioni segrete sulle case dei cardinali e sui business milionari del Bambin Gesù, della fabbrica dei Santi o della compravendita di tabacco e gasolio.
«Non posso dirvi nulla. Alle vostre domande sono costretto a opporre il segreto professionale. In Italia abbiamo la libertà di stampa, è tutelata dalla Costituzione. E regole deontologiche che mi permettono di tenere riservate le mie fonti. In Vaticano non avete leggi sul diritto di cronaca?». L’interrogatorio finisce qui. Il magistrato mi avverte che l’inizio del processo contro di me è fissato dopo una sola settimana. Capisco che Oltretevere vogliono fare in fretta, e chiudere tutta la vicenda prima che inizi il giubileo della misericordia. «Entro l’8 dicembre sarà tutto finito», mi dico.
Uscendo non c’è nessuno: io e il mio avvocato siamo entrati da un ingresso laterale, quello del Perugino, proprio perché non volevamo dare nell’occhio. «Guarda Emiliano in genere sono ottimista, stavolta l’assoluzione sarà obiettivo più difficile del solito», mi spiega Lucia Musso. Il giorno dopo comincio a compulsarla di telefonate, chiedendo di andare a prendere il prima possibile le carte dell’accusa. Passano tre giorni prima che arrivi il decreto di rinvio a giudizio, in tutto dieci pagine che mi citano solo due volte: «Riguardo al ruolo svolto dai giornalisti Gianluigi Nuzzi ed Emiliano Fittipaldi esso emerge chiaramente dalle dichiarazioni di monsignor Balda nel corso del confronto con la Chaouqui del 17 novembre, laddove il monsignore specifica di aver subito pressioni e sollecitazioni dai predetti per avere i documenti riservati». Quando leggo quasi trasecolo, perché “pressioni” o minacce di sorta non ne ho mai fatte in vita mia. Nemmeno nel traffico romano, figurati a un prelato che ho incontrato in tutto due volte quando ormai avevo quasi finito il volume. «Stai tranquillo, è un classico, po’ di macchina del fango, sai come funziona», dico tra me e me.
È il 20 novembre, e i fascicoli con tutte le carte dell’accusa non sono ancora arrivati. Arriveranno solo il 23, a poche ore dall’inizio del processo. La notte prima del dibattimento, per cercare di capire cosa ci aspetta l’indomani, io e i miei legali ordiniamo tre maxi burger e patatine per tirare fino a tardi. I fogli sono tanti, i messaggi WhatsApp scaricati dal cellulare di Balda sono centinaia: ci sono le conversazioni con me, con i colleghi Gianluigi Nuzzi e Paolo Mondani di Report (estraneo all’inchiesta), quelli con Francesca Chaoqui. Poi interrogatori, memorandum, sms. Leggendo ogni riga arriviamo fino alle due di notte, e l’insieme probatorio conferma quello che già sapevo: io ho fatto solo il mio lavoro, e al processo non ho nulla da temere. Ci sono colloqui con il sottoscritto sulla fabbrica dei santi e sul rischio di riciclaggio allo Ior, sulla società finanziaria che i nuovi uomini che gestiscono la banca vaticana vogliono aprire in Lussemburgo (idea poi bocciata da papa Francesco), sul Bambin Gesù («Profiti lì controllava tutto, devo fare indagine ufficiale», mi scrive il prelato). Nei verbali c’è, soprattutto, la storia dei contrasti interni alla Cosea (la commissione pontificia di cui Balda era segretario e la Chaouqui membro effettivo) e i contrasti tra la lobbista e il presidente Joseph Zahra, finanziere maltese vicinissimo al cardinale George Pell.
Il 24 è il giorno del giudizio. O meglio, dell’inizio del dibattimento. Io e Nuzzi decidiamo di incontrarci qualche minuto prima dell’appuntamento davanti la corte vaticana, anche perché – nonostante siamo imputati di aver divulgato notizie riservate «in concorso» tra noi – non ci siamo mai visti e sentiti prima d’oggi in vita nostra. Prendiamo un caffè, ci raccontiamo impressioni e pareri sui nostri due libri, e dopo dieci minuti entriamo insieme dall’ingresso del Perugino. Oltre la stazione di controllo della gendarmeria si apre un altro mondo. Silenzioso e sconosciuto. Per arrivare al Palazzo del Tribunale passo davanti a Santa Marta, la residenza dove Bergoglio vive in 50 metri quadri, e poi al Palazzo San Carlo, dove il cardinal Bertone vive in un appartamento di 300 metri quadri ristrutturato (almeno in parte) con oltre 200 mila euro provenienti dai fondi della Fondazione Bambin Gesù, denari destinati teoricamente ai bimbi malati. Noto sulla destra anche la mitica pompa di benzina del Santo Padre: in “Avarizia” ho svelato che il distributore incassa 27 milioni di euro l’anno, vendendo carburante a prezzo ribassato a un numero enorme di persone che non avrebbero diritto di approvvigionamento, ma che hanno ottenuto (grazie a raccomandazioni e amicizie) il tesserino vaticano che permette di fare acquisti tax-free. «Un Paese che si vuole democratico tutela la libertà di stampa. Ho scritto notizie verificandole una ad una, incrociando dati e tabelle, parlando con decine di fonti, non ho nulla da rimproverarmi», penso mentre entro in aula. Eppure, in uno Stato dove le norme sulla libera stampa non hanno finora mai trovato un codice che le accogliesse, nulla può essere scontato.