Grazia, 26 novembre 2015
Carmen Consoli parla del figlio avuto da un donatore sconosciuto
Non scambiate Carmen Consoli con la malinconia delle sue canzoni: lei è solare. Non fatevi sviare dalla sua voce sommessa: lei è potente. Non perdete di vista, dentro al buio dei suoi testi, la sua profonda fiducia nella vita. La vita che, come dice lei, non si fa certo spaventare dal dolore. Carmen, la “cantantessa”, è arrivata al nostro appuntamento con un notevole ritardo e con un ancor più notevole sorriso. Prendersi il suo tempo, per lei, è il lusso estremo. Lo prende, dunque. E lo regala. Tanto che a un certo punto ho pensato che questa intervista non sarebbe finita mai: ogni volta che tentavo di spegnere il registratore lei mi bloccava: «Aspetti, mi piace tanto chiacchierare con lei». Piaceva anche a me, moltissimo: ma cera un’intera troupe in attesa di produrre il servizio fotografico che vedete in queste pagine. «Per le foto non c’è problema», insisteva Carmen. «Dopo le facciamo in un attimo, che ci vuole? Io sono fighissima, no?». Lei è così: 41 anni, autoironica, sincera, allegra, malinconica. Si è presa la libertà di sparire dalle scene per più di cinque anni ed è riapparsa con un album che ha scalato le classifiche, L’abitudine di tornare, e con un tour. Era nella capitale francese il giorno degli attentati del 13 novembre e si sarebbe dovuta esibire il 25, ma ha deciso di cancellare la tournée internazionale: «Dal vivo esprimo solo quello che sento realmente», spiega. «La mia musica è la voce della mia anima, del mio pensiero e dei miei sentimenti. Ma non devo esprimermi sempre e comunque, a volte il silenzio è un prezioso compagno. Per poter salire sul palco dopo quello che è successo, dovrei fingere. E la gente non lo meriterebbe».
In quasi due ore di intervista ha riso, ha pianto, ha recitato in inglese, ha parlato in siciliano, mi ha mostrato fotografie “troppo belle” sullo smartphone, ha cantato la Divina Commedia, ha dato i numeri da giocare al Lotto, ha discusso di ingiustizie sociali e povertà. Ha parlato del suo amatissimo padre che se ne è andato nel 2009. E, per la prima volta, ha raccontato del come e perché ha deciso di avere un figlio da sola, lei che sola non vuole restare. Carmen ha parlato tanto. E, soprattutto, ha ascoltato tantissimo, usando quella capacità, imparata da suo padre, da cui tutto è cominciato: «Quando ero bambina, papà mi faceva parlare cantando e stava a sentirmi per ore. Io gli raccontavo in note la mia giornata a scuola. Erano le “ballate” della mia vita: fatti quotidiani che diventavano romanze. Mio padre era un magnifico musicista».
E le ha dato le chiavi del suo talento.
«Non solo. Mi ha dato la certezza, indispensabile per ogni bambino, di essere ascoltata. Con il mio diario in musica gli raccontavo tutto quello che era importante per me. Con il tempo ho imparato anche a studiare cantando. So a memoria interi brani della Divina Commedia perché li ho messi in musica (Carmen canta l’incipit dell’Inferno, ndr). Solo così ne ho compresa tutta la poesia. Per me la musica è una seconda lingua».
Lei è diventata mamma di Carlo, che oggi ha poco più di due anni, dopo che suo padre se ne è andato.
«È stato proprio il mio papà a suggerirmi l’idea di avere un figlio da sola. Da tempo mi diceva ridendo: “Voglio un piccolo Consoli, ma non mi mettere estranei in casa, non ti maritare”. Lui era così: anticonformista, libero, convinto della enorme superiorità delle donne».
Quando ha deciso di avere un figlio?
«Lo desideravo tanto, credo di essere nata mamma. Ma stavo diventando grande e avevo voluto una vita che non mi aveva permesso di costruire un rapporto solido con un uomo che potesse diventare il padre dei miei figli. Poi ho visto Gianna Nannini diventare madre a più di 50 anni, sola. E ho pensato: “Allora si può fare”. Così ho deciso di andare all’estero per una fecondazione assistita. È stata un’esperienza molto forte, molto bella».
Ha deciso che suo figlio non avesse un padre. Per una che ha avuto un papà come il suo non deve essere stato semplice.
«Ci ho pensato a lungo. Ho avuto un papà fantastico, togliere questa figura a mio figlio non è stato facile. Ma poi ho capito che la cosa importante sarebbe stata garantirgli un nucleo di amore. E questo c’è: il mio bambino cresce circondato da una grande famiglia. E poi, per la fecondazione assistita, ho scelto un donatore disponibile a essere contattato, se e quando Carlo vorrà conoscerlo. Non voglio che mio figlio cresca cercando suo padre negli occhi di tutti gli uomini: se vorrà incontrarlo, lo farà».
E lei non è curiosa di vedere l’uomo che l’ha resa madre?
«Moltissimo. Anche se mi sono fatta un’idea di lui. Me lo immagino come una specie di vichingo: grande e grosso, perché Carlo è così. Secondo me il donatore è un uomo buono e intelligente, io certe cose le sento».
La perdita di suo padre e l’arrivo di suo figlio l’hanno tenuta lontana dalle scene per più di cinque anni.
«Ho preso il tempo che la vita mi chiedeva. Ho scelto di attraversare il dolore. E di vivere la mia maternità fino in fondo. L’ho fatto come tutte, vivendo una gravidanza
qualunque anche se, come ogni donna, mi sentivo la prima e l’unica a mettere al mondo un bambino. Facevo la spesa, cucinavo, aspettavo. Ascoltavo i consigli delle signore che incontravo al mercato... Poi è nato Carlo. Un bambino buonissimo e felice. Lo allatto ancora».
Fa fatica a lasciarlo?
«No. Penso semplicemente che il mio latte gli faccia bene. E che a me faccia bene questa irripetibile intimità con lui. Penso di essere una buona madre, perché, come tutte le mamme, per mio figlio non c’è stanchezza che tenga, non c’è limite. Per lui ci sono sempre».
Quanto l’ha cambiata, profondamente, la maternità?
«È come una lente che magnifica tutto. Ogni cosa viene impreziosita da questa presenza che mi ha riempita di senso. Il senso della vita».
Nei suoi testi lei canta spesso i dolori del mondo: quello dei profughi, delle persone senza casa, delle coppie gay costrette a nascondersi.
«Cerco di trasformare in musica le cose che sento e che vedo. Come mi ha insegnato mio padre».
È vero che aveva previsto le dimissioni di Papa Benedetto XVI prima che avvenissero?Le succede spesso di sapere come andrà?
«Ogni tanto dico cose che poi succedono. Mi è capitato di dare “i numeri” a una conferenza stampa: i giornalisti che li hanno giocati poi hanno vinto. Il guaio è che non riesco a gestirla questa capacità, non la so prevedere e utilizzare. Mi scusi, con queste stupidaggini le sto facendo perdere tempo?».
No. Questa cosa mi sembra molto divertente.
«Mi piace parlare con calma. Che cosa vuole sapere?».
Parliamo d’amore.
«Non è il mio momento, credo. Sono convinta che troverò l’amore della mia vita a 55 anni e mi sposerò. Adesso faccio la mamma. Sto dentro ogni cosa della mia vita, profondamente. Senta, se lei avesse più tempo vorrei raccontarle di come se ne è andato mio padre».
Tutto il tempo che vuole.
«Dopo un aneurisma dicevano che era in stato di definitiva incoscienza e che non sarebbe stato più contattabile. Io questa cosa di non averlo salutato proprio non riuscivo ad accettarla. Così mi sono messa accanto a lui, in terapia intensiva: per ore, per giorni interi. Gli parlavo e gli cantavo le mie ultime canzoni, quelle che lui non aveva fatto in tempo a sentire. Poi finalmente papà ha mosso una mano, cosa che i medici avevano dato per impossibile. Ho cominciato a fargli domande: chiedendogli di stringere la mia, se voleva dirmi “sì”. E di non fare niente, per dire “no”. In questo modo sono riuscita a sapere che mi aveva sentito, che le mie canzoni gli piacevano, che se ne andava sereno perché ero lì con lui. Mi amava tanto».
Un rapporto formidabile, capisco che le manchi tanto.
«Credo che succeda spesso fra un padre e una figlia: ci si capisce senza parole. Quando lui se ne è andato gli ho dedicato una canzone: “Mandaci una cartolina”. Solo dopo ho saputo che, quando ogni mattina andava al bar per fare colazione, salutava gli amici dicendo: “Se muoio, non preoccupatevi: vi mando una cartolina”. Le mie stesse parole: una magia».
Deve a lui tutta questa sua vitalità?
«A lui e a mia madre. Lei è un tipo tostissimo. E “bedda beddissima”. Una che a 70 anni ha imparato a usare i social. Una che mi ha accompagnato all’estero per scegliere il padre del mio bambino. Insieme abbiamo sfogliato i cataloghi, abbiamo ragionato, deciso. Un momento struggente, surreale, magnifico».
Come lo racconterà a Carlo?
«Penso, anzi sono sicura che glielo canterò».
Il tempo è davvero scaduto. Stylist, fotografo, truccatore, parrucchiere, addetti alle luci, ufficio stampa, agente, assistenti vari: la gente che sta aspettando è davvero tanta. Spengo il registratore. E lei mi dice: «Per venire bene in foto devo essere contenta. E io sono contenta di aver raccontato tutte queste cose di me».