l’Espresso, 27 novembre 2015
Saverio Costanzo è un grande fan di “Chi l’ha visto”. «Mi mette così in tensione che non riesco a vederlo se sono solo a casa»
Nel suo primo film, Private, Saverio Costanzo faceva sognare a un giovane palestinese un futuro da kamikaze, un gesto speciale che lo rendesse eroe ai propri occhi e a quelli della sua gente. Anche per questo l’ombra delle stragi di Parigi si insinua presto in un’intervista che intendeva esplorare il suo percorso di uomo e di regista in occasione della programmazione della seconda stagione televisiva di In Treatment, da lui diretta. Ma c’è da credere che, anche senza la tragica attualità, Costanzo ci avrebbe portato ugualmente a toccare quell’area dove si muovono i protagonisti dei suoi film, soli, egocentrici, svuotati di senso, alla ricerca apparente di un ideale, ma in realtà tesi soltanto a fare della propria vita un’impresa.
È infatti in quel confine tra mondo esterno, osservato con gli strumenti della sua formazione sociologica, e mondo interno di cui si rivela frequentatore assiduo, che Costanzo ha collocato un cinema diverso dalla normale produzione italiana e sorprendente per qualità e densità. Può sembrare quindi strano che si proponga di nuovo come regista di una serie importata dall’estero, sia pure incentrata sulla psicoanalisi.
Costanzo, eccola di nuovo in tv con una fiction scritta da altri. È una scelta che non le somiglia.
«Infatti è stato un salto. Ho voluto fare un passo indietro rispetto al mio cinema molto personale. Qui ho potuto lavorare come un pittore d’icona, che per mestiere replica opere altrui, ma che impone il suo tratto, sia pure in minuscoli dettagli».
Non sarà stato attirato anche da tutto quel tormento interiore tra analista e pazienti?
«No. Perché, anche se è una delle cose migliori mai realizzate per la tv, resta comunque uno show televisivo che per sua natura è orizzontale. La tv non può mai andare veramente a fondo. Questa è la sua forza».
Eppure ha dichiarato che guardare In Treatment può diventare una terapia.
«In realtà è una cosa che penso possibile soltanto per il cinema. La tv può toccare delle corde, far riflettere. Ma è il cinema che, se fatto con onestà, produce immagini che entrano nel nostro immaginario, si immagazzinano nella memoria e ci aiutano ad evolvere. La bellezza ha sempre questo effetto».
Il suo cinema però è spesso spiazzante, difficile da sopportare.
«Me lo auguro. La mala educazione cinematografica induce a vedere ciò che già si conosce, per rassicurarsi o per cercare le differenze. Io tento di creare l’imprevedibile e mettere a disagio lo spettatore. Non lo faccio con la ragione, ma per un istinto che mi fa scegliere la tragedia rispetto all’epica. I mie personaggi sono sempre tesi verso l’alto e di conseguenza verso il basso. Non sanno camminare orizzontalmente».
Ma qualcuno può davvero identificarsi con quei suoi protagonisti desolati che cercano strade improbabili per poi finire sconfitti?
«Credo di sì, perché parlo di una società danneggiata che induce a perseguire l’affermazione del proprio Io in tutti i modi possibili. Sia che si chiudano in un convento, anelino alla purezza assoluta o si facciano saltare in aria, i miei personaggi usano ideologie radicali, non per cambiare il mondo, ma per la loro autoaffermazione. Da questo punto di vista i terroristi di Parigi non sono diversi da quelli che 15 anni fa spararono a raffica in una scuola a Columbine».
Un’altra sua costante è la famiglia, per lo più rappresentata come un horror sentimentale.
«Mi crede se le dico che non so perché? Mi accorgo solo in seguito di averla raccontata così. Forse c’è un legame con il desiderio di scomparire che mi incolla ogni settimana a Chi l’ha visto. Sono un grande fan di quella trasmissione, e mi mette così in tensione che non riesco a vederla se sono solo a casa».
Sarebbe mai capace di scomparire davvero?
«È un’idea che mi attrae e mi fa paura. Non potrei mai prescindere dai miei figli, di cui mi occupo costantemente, anche se coltivo il sogno conradiano di un viaggio verso una terra sconosciuta. Poi penso che ormai il mondo è diventato piccolo e non c’è più niente da scoprire. Il mio solo modo di fare un vero viaggio è quello di rimanere fermo».
C’è però anche una famiglia di origine, con un padre ingombrante. Essere il figlio di Maurizio Costanzo è stata un’opportunità?
«Che mi si creda o no, non ho mai chiesto niente a mio padre, mai un favore, mai un aiuto, in maniera non solo radicale, ma violenta».
Perché? Che c’è di male a farsi aiutare da un genitore?
«Sono stato educato a pensare che essere figlio di una persona famosa fosse una responsabilità. Mia madre, quando eravamo ragazzini diceva a me e a mia sorella: “Voi avete un occhio di bue addosso perciò dovete essere più bravi degli altri”».
È andata così?
«Dalle elementari all’università, non mi sono mai socializzato come figlio di Costanzo. Certo, lo sapevano tutti, e questo mi creava dei problemi. Che il pregiudizio nei confronti di mio padre fosse positivo o negativo, per me era lo stesso. Non mi sono mai sentito quello che la gente vedeva in me e piano piano ho fatto in modo che se ne dimenticassero».
Ha anche una madre teologa che l’ha aiutata a scrivere In memoria di me, ambientato in un convento.
«L’apporto teorico e teologico della sceneggiatura è tutto suo. E forse io non ne ho usato appieno la forza. Per preparare il film, avevo partecipato agli esercizi spirituali di Sant’Ignazio che lei stava conducendo e ne ero rimasto molto colpito. Ma fare quei percorsi in modo strumentale, pensando a uno scopo specifico, non dà la profondità necessaria. Anche se aiuta a trovare il concreto dentro l’immateriale».
Lei è credente?
«Guardi, mica lo so. Mi sembra tutto talmente in divenire che non posso né affermarlo né negarlo».
E tutto quell’assoluto che si respira nei suoi film?
«È una dedizione. La stessa che a Flaubert mi fa preferire istintivamente Dostoevskij. I suoi personaggi sono febbricitanti, hanno sempre l’ambizione di tendere verso qualche cosa di alto».
Lei, al contrario, dà al suo cinema un tono piuttosto claustrofilico: piccole stanze, corridoi, armadi...
«Lo so, lo so. Cerco di farlo un po’ meno e nel mio ultimo film, “Hungry Hearts” ambientato a New York, ho girato molte scene all’aperto. Ma temo che anche un deserto o un oceano ripresi da me sembrino luoghi chiusi. Io stesso non so che pensarmi dentro le 24 ore: c’è la notte, il giorno, poi di nuovo la notte. Un tempo breve che mi permette di dare un senso a quello che succede. Non di essere sopraffatto dalle cose».
Questo è un risultato della sua analisi?
«Perché pensa che io sia stato in analisi?».
Perché finora non abbiamo parlato d’altro.
«Forse è vero, ma non le risponderò. Mi sembra volgare raccontare esperienze condivise con persone che forse leggeranno questa intervista. Invece che della mia, vorrei parlare dell’analisi di tutti».
Che cosa intende?
«È triste che soltanto chi ha i mezzi finanziari possa fare un percorso di questo tipo. Lo Stato dovrebbe darne la possibilità a tutti. Se ne gioverebbe l’intera società. La vita è caotica e le persone stanno meglio quando riescono a non perdere niente di quello che gli capita. La psicoanalisi è uno degli strumenti necessari, ma anche leggere un libro, guardare davvero un film, ascoltare musica, sono modi di assumere il bello e mettere ordine nella propria vita».
Sta già pensando a un nuovo film?
«Forse. Prima o poi vorrei riuscire a fare un film aperto, fiducioso. Penso a Cassavetes, non soltanto per l’impianto produttivo indipendente, ma per la sua leggerezza anche nella tragedia e per la sua fiducia nell’essere umano. Io ci ho provato, ma alla fine non riesco a non infilarmi in un incubo».
Sente questo come un limite?
«Se vuole la verità, io sento me stesso come un limite».