il venerdì, 27 novembre 2015
Nel cervello dei piloti di F.1
Mantenere il respiro lento e profondo. Rilassare i muscoli dell’addome. Avere consapevolezza dei propri pensieri e alleggerire la mente... Sono gli esercizi mentali (il mental-economy-training) che medici e psicologi dell’équipe Formula Medicine suggeriscono ai piloti di Formula 1 prima di ogni Gran Premio. Mentre i motori si scaldano, insomma, loro scaldano i muscoli, e soprattutto la mente, di chi è al volante. «La maggior parte dei piloti ha avuto un dono immenso da Dio» ha detto riferendosi alla capacità di guidare in condizioni estreme Jackie Stewart, tre volte campione del mondo, ora 76enne, «ma non tutti hanno ricevuto una testa adatta a quel dono: se imparassero a gestire la mente, questo sarebbe il loro bene più grande». Della «gestione» della mente, accanto a quella del corpo, si occupa appunto Formula Medicine, nata nel 1989 per dare assistenza medica e atletica e fare ricerca nel mondo dell’automobilismo sportivo.
In questi 26 anni, Formula Medicine ha collaborato con più di 70 piloti di Formula 1 – inclusi Alonso, Massa, Vettel ed Ericsson – e altri 900 di altre categorie, provenienti da 47 nazioni. Il suo staff comprende 15 persone, tra fisioterapisti, psicologi e medici, oltre a una decina di collaboratori. E a ogni gara una sua squadra va nei recinti: quest’anno assistono i piloti di Mercedes, Williams, Red Bull, Toro Rosso, Force India e Lotus.
Il quartier generale di Formula Medicine è a Viareggio, mille metri quadrati suddivisi in zone: «mentale», «fisica» e «medica». Ad aprirlo è stato Riccardo Ceccarelli, che da ragazzo sognava di guidare le monoposto e invece, subito dopo la laurea, divenne il medico personale di gara del pilota Ivan Capelli.
Che a un pilota serva una preparazione fisica ad hoc è evidente. Tanto per dire, ogni curva si traduce in pressione laterale sul collo di 25-30 chili. Poi ci sono gli sbalzi dovuti alle asperità dei cordoli, che vengono tutti ammortizzati sulla colonna vertebrale. Servono muscoli, quindi, ma senza aumentarne troppo la massa. La preparazione di un pilota però non può puntare solo sul fisico. A contare moltissimo, in questo come in altri sport, è la mente. Una mente che, a volte, agisce in modo incomprensibile. Nel 1989, dopo una corsa, Ivan Capelli, appena sceso dall’auto, raccontò a Ceccarelli che, mentre affrontava un curvone in cui frenava da 280 a 30 all’ora, aveva distolto lo sguardo dalla pista per portarlo sulle tribune, dove il cappello di uno spettatore volava via per un colpo di vento. «Fai una frenata a quella velocità e ti metti a guardare cosa succede sulle tribune? Ma perché?» chiese stupefatto Ceccarelli. Capelli alzò le spalle: «Non lo so».
Questo episodio colpì Ceccarelli al punto da spingerlo a indagare «scientificamente» su che cosa accade nella mente dei piloti durante una gara. E presto le domande si moltiplicarono: che cosa contraddistingue l’intelligenza di un campione? E, a parità di macchina, sono i tempi di reazione di un pilota a farlo prevalere su un avversario, o c’è dell’altro? Per esempio, nel 2004, nel Gran Premio d’Europa al Nürburgring, Michael Schumacher e Mark Webber sfiorarono la collisione quando il tedesco cercò di superare l’australiano appena uscito dai box. I tempi di reazione di Schumacher evitarono l’impatto. Due giri più tardi, in circostanze del tutto simili, Takuma Sato, su Bar-Honda, e Rubens Barrichello, compagno di squadra di Schumacher, si scontrarono. Erano stati meno reattivi? O meno intelligenti? E di che tipo di intelligenza si trattava?Ceccarelli, ovviamente, non è stato il primo a interrogarsi sulla mente dei piloti: lo hanno fatto, tra gli altri, lo psicologo Martyn Newman, esperto in intelligenza emotiva, e il neuroscienziato Kerry Spackman, oggi mental-coach del pilota britannico Lewis Hamilton, che concentra il suo training sulla «biblioteca mentale di soluzioni», ossia le possibili manovre che un pilota ha in mente in casi di emergenza. Insomma, da qualche tempo la ricerca scientifica cerca di andare un po’ più in là rispetto alle pur suggestive metafore «Guidare una monoposto è come essere inseguiti da una tigre» oppure «è come giocare a scacchi a 300 all’ora».
Anzitutto, le moderne tecniche di risonanza magnetica hanno permesso di vedere in che cosa il cervello di un pilota differisca da quello della popolazione media. Un team dell’Università di Pisa ha per esempio svolto uno studio che nel 2011 ha ricevuto il riconoscimento dell’Organization for Human Brain Mapping (Ohbm). I ricercatori hanno usato un macchinario di Formula Medicine a Viareggio che esegue una risonanza magnetica funzionale (fMRI) mentre il soggetto esaminato osserva un video registrato dalla camera-car di una monoposto e interviene in risposta a segnali specifici. Si è visto così che i piloti professionisti «hanno una diversa connettività funzionale tra distinte regioni cerebrali implicate nei processi visuo-motori». In altre parole, «il cervello dei piloti lavora con maggiore efficienza» spiega Emiliano Ricciardi, ricercatore del Laboratorio di biochimica clinica e biologia molecolare dell’Università di Pisa. «I piloti professionisti sono cioè in grado di svolgere un compito visivo reclutando un numero inferiore di aree del cervello, ma facendole comunicare meglio. Insomma, in virtù forse dell’intenso allenamento, il cervello dei piloti “consuma meno carburante”».
Si potrebbe dire che il cervello di un pilota è uguale ma diverso. «Non è infatti più veloce di quello di chiunque altro né sono diversi i tempi di reazione e i riflessi in genere» puntualizza Ceccarelli. «Abbiamo confrontato i dati cerebrali di un gruppo di piloti professionisti con un gruppo di persone mai salite neppure su un go-kart, e tempi di reazione e riflessi sono in media gli stessi. Ma il cervello di un pilota professionista è meno sollecitato rispetto agli altri, specialmente sotto stress. Ci sono zone del cervello, visibili con la risonanza magnetica, che si attivano meno, sono meno “surriscaldate”, come se reagissero con più serenità alle sollecitazioni». Tutto questo naturalmente dipende moltissimo dall’allenamento. «E proprio sui cambiamenti nelle reazioni cerebrali indotti dall’allenamento si concentrano oggi le varie psicologie dello sport» dice Pierluigi Garotti, cattedra di Psicologia a Bologna, «ma per capire quello che avviene nella mente di un pilota in pista è utile anche l’approccio psicoanalitico. L’osservazione del cervello va unita allo studio di una serie di dinamiche relazionali che nella Formula 1 diventano, anche quelle, adrenalina pura. Senza tornare alle pulsioni di morte di Freud, bisogna tenere conto delle relazioni che si instaurano con avversari o meccanici, e perfino con i tifosi. Sembrano tutti amici, i piloti, ma al volante si trasformano».
In ogni caso le sollecitazioni psicofisiche in gara sono fortissime. E si ripercuotono sul battito cardiaco. «I battiti del cuore in pista salgono anche oltre i 180 al minuto. L’automobilismo è uno tra gli sport con la frequenza cardiaca più alta» spiega Ceccarelli «e quando un pilota registra i tempi migliori i suoi battiti schizzano fino a venti in più rispetto alla sua media in gara. D’altra parte, più i battiti sono bassi, minore è lo spreco di energia, e questa può perciò essere spesa altrove, per esempio nell’osservare la pista».
Quindi, per un pilota è molto importante riuscire a far sì che il salire della velocità porti un aumento dei battiti il più contenuto possibile: di qui gli esercizi di respirazione, simili a quelli praticati nelle palestre di yoga, che aiutano a tenere basso il battito cardiaco. Esercizi adattissimi per affrontare imprevisti a 180 all’ora, ma probabilmente utili anche per reagire nel migliore dei modi al traffico quotidiano delle nostre città.