il venerdì, 27 novembre 2015
Gli orologiai italiani hanno le ore contate perché le case produttrici non gli mandano più i pezzi di ricambio
«Il nostro mondo è un banchetto di venti centimetri quadrati, quello dove lavoriamo» dice Andrea, 75 anni, professione da sempre: orologiaio. «Sì, ma se non ci dai i pezzetti per lavorare» commenta un altro orologiaio sui 60, cappellino con la visiera, pantaloni di velluto e mocassini, «il nostro mondo non ce l’abbiamo più». È il 13 novembre e, davanti al Ministero dello Sviluppo economico, gli orologiai manifestano. I «pezzetti» sono i pezzi di ricambio – le riparazioni sono il lavoro principale di ogni orologiaio – che iniziano già a scarseggiare. «Quando le multinazionali sono arrivate ad acquisire la maggior parte dei marchi del settore» dice un volantino che viene dato ai passanti «hanno scoperto che il mercato delle riparazioni e dell’assistenza è economicamente importante. Hanno quindi deciso di gestire direttamente questo business, non fornendo più i pezzi di ricambio». Ma questo, dicono gli orologiai riparatori, è contro la libera concorrenza. Perciò – dopo un ricorso alla Commissione europea respinto per «irrilevanza economica» – si sono rivolti alla Corte di Giustizia europea.
«Ci vogliono far chiudere», dice un orologiaio di origini pugliesi dallo smaccato accento milanese, i capelli tirati indietro e una parlantina invidiabile. Ha imparato dallo zio, partito per il Nord in cerca di lavoro e tornato in Puglia orologiaio, la mattina lavorava agli orologi e il pomeriggio si dedicava agli ulivi. «È come vendere la macchina e non la benzina» dice Daniele, un fornitore. Si blocca tutta la filiera: il laboratorio chiude, il fornitore chiude, chiude chi fa le casse, i cinturini, il vetro. E il cliente, costretto a mandare il suo orologio in Svizzera anche per un piccolo guasto con tempi e costi molto maggiori, a quel punto un orologio non lo ripara più.
Simulatore, lavatrice, tornio, portamovimenti, chiave apricasse, cronocomparatore, grattabugie. Solo nominare alcuni degli attrezzi che servono per riparare un orologio dà un’idea di quanto questo lavoro sia complesso e antico. Solo guardare, anche di sfuggita, un orologiaio chino sul suo banchetto, il monocolo sull’occhio, l’orologio smontato su un piccolo piedistallo – il portamovimenti – la pinzetta con cui prende, quasi spilucca, ingranaggi infinitesimali e li inserisce al loro posto con un lavoro certosino di incastri, solo guardare in uno dei cassetti di un fornitore, con dentro i pezzi che servono a riparare un dato calibro di una data marca, fa girare la testa.
Alla manifestazione non ci sono più di 80 orologiai da tutta Italia – Roma, Bergamo, Milano per lo più. «In tutto siamo poco più di 600» spiega uno di loro – e a colpi di fischietto, striscioni, volantini e ingranaggi di spugna formato gigante indossati e branditi a mo’ di bandiera, tentano di farsi sentire. Ce n’è uno che non smette di lanciare cori in un megafono: «Orologiai! Braccia conserte! Sciopero! Strike», «Chi non sciopera con me crumiro è», «Se il ricambio non ci dai, te ne andrai».
«Siamo strani?» mi chiede Luca, orologiaio milanese da quattro generazioni. «No» rispondo, ma un po’ sì, perché poco lontano c’è una rumorosa manifestazione studentesca, mentre qui ci sono persone – uomini per lo più, ma anche due donne e la moglie di un orologiaio milanese con i figli che, seduti a terra, disegnano col pennarello rosso sul retro dei volantini o giocano con i grossi ingranaggi di spugna – schive e dignitose. L’età media è intorno ai 60 anni, ci sono anche persone più anziane ma è difficile vedere qualcuno sotto i 40: anche le scuole di formazione stanno chiudendo. Chiedono al ministro di trovare una soluzione prima che sia troppo tardi, la delegazione rimane dentro il Ministero per un paio d’ore. «Aridàtece la delegazione!» sorride qualcuno, «se so ’ presi pure quella».
Figlio di un autoriparatore, Mario si è iscritto all’Itis Armellini, istituto tecnico industriale di Roma, nel ’63. «C’era anche un corso per orologiai, mi piacque e scelsi di non fare il meccanico delle macchine come mio padre, ma un meccanico di cose molto più piccole, gli orologi. Un lavoro come questo si fa solo per amore». Francesco, 45 anni, invece è figlio di un avvocato. Ha studiato Giurisprudenza ma, a tre esami dalla laurea, ha lasciato «per cercare di fare quello che mi piaceva veramente». Sin da piccolo smontava e rimontava orologi e macchine fotografiche, «non sai quanti ne ho rotti. Un mio amico faceva l’orologiaio, sono andato a lavorare con lui. Prima di imparare davvero ad aggiustare un orologio mi ci sono voluti anni». Poi Francesco ha aperto insieme al socio Daniele un’orologeria nel cuore di Roma, ora sono qui da dieci anni. «È come se tu dovessi fare il tuo lavoro così», l’orologiaio di origini pugliesi mi sfila la penna dalla mano, e io effettivamente mi sento quantomeno infastidita, «così stiamo noi, senza pezzi di ricambio».
Quasi tutti gli altri sono orologiai da generazioni, quattro, cinque, che è un tempo dilatato e lunghissimo. Lavorano col tempo, ma del tempo sembrano non curarsi, a riparare un orologio «ci vuole il tempo che ci vuole».
Dopo la manifestazione passo dalla bottega di Francesco e Daniele, è novembre ma c’è ancora una luce bellissima e fa caldo, lavorano ognuno sul proprio banchetto, schermati da un vetro come fossero in vetrina, circondati da orologi antichi e moderni, cassettini dei calibri, un tornio, il simulatore che gira su se stesso per testare gli orologi da polso, lo stereo che manda Hey Baby di J.J.Cale. «Hey baby it’s your time now», inizia così. Il tempo scorre, fugge, è tiranno, bello, brutto, non ce n’è mai abbastanza, e pensare che rintocchi, ancora, dentro un pendolo o in un piccolo orologio da polso in questa bottega è rassicurante. Il rischio per loro come per gli altri, se non si trova un accordo con le multinazionali svizzere, è di smettere di esistere. Che è un altro aspetto del tempo, continuare a discapito di tutto. Ma qualcosa si può preservare, un orologio è ancora un simbolo, si regala, si tramanda, a suo modo potrebbe non finire mai. Appare chiaro qui, lampante, che certe cose non finiscono, mentre nella bottega entra una donna chiusa in un cappotto come fosse inverno pieno, poggia un orologio sul bancone: «Si è fermato, quanto tempo ci vuole ad aggiustarlo?».