il venerdì, 27 novembre 2015
Spielberg e Hanks sul Ponte di Glienicke, quello delle spie
Sul ponte sospeso sopra la fine del mondo, due uomini aspettano intirizziti nella nebbia gelata della Guerra Fredda. È il 10 febbraio del 1962, un sabato deserto come tutti sulle rive di quel lago fra due mondi, fra la Berlino dell’Ovest e dell’Est, che il ponte sbarrato, chiamato il Ponte di Glienicke, dovrebbe unire e che invece separa.
Si chiamano Gary Powers, pilota americano, e William Genrikhovich Fisher, conosciuto nella sua identità di spia del Kgb come Rudolf Abel. Aspettano. Se tutto andrà bene, se tutte le rotelle del mostruoso ingranaggio che collega Mosca a Washington, la Lubjanka a Langley, il Cremlino alla Casa Bianca, il Checkpoint Charlie nel centro della città al ponte in periferia scatteranno nella posizione giusta come i numeri e i fruttini di una slot machine, Gary e Rudolf si incammineranno in direzione opposta dai due capi del ponte. Percorreranno lentamente – guai a correre sotto l’occhio dei cecchini opposti – quei cento metri. Si incroceranno senza fermarsi e senza scambiarsi uno sguardo esattamente a metà, dove una riga di vernice sull’asfalto bianca segna il confine fra Est e Ovest. Raggiungeranno i sovietici e gli americani che li attendono nelle auto con le portiere aperte e il motore acceso e con quella breve passeggiata allontaneranno di qualche metro, di qualche mese, il confine dell’apocalisse nucleare.
Il filo di quella mattina di gennaio, che nella lontananza del tempo e della storia sembrava smarrito nei ricordi, è stato ripreso oggi, sorprendentemente, da due grandi del cinema, Steven Spielberg e Tom Hanks, nel film che il regista e produttore di giganteschi successi ha finanziato con i soldi della propria DreamWorks, in società con la Fox, e l’attore del Soldato Ryan ha interpretato: Il ponte delle spie (dal 17 dicembre nei cinema italiani). Se fra «le dozzine e dozzine di proposte di film e di sceneggiature che ricevo ogni anno ho scelto proprio questa storia abbastanza dimenticata» mi dice Spielberg nel nostro incontro in una suite del Four Seasons di Manhattan, «è perché racconta di come un individuo, un uomo in fondo qualsiasi, messo di fronte a un rischio e a un evento enormi, possa, con la propria ostinazione, con la propria azione, fare la differenza».
L’uomo al quale allude Spielberg, che nei suoi ormai quasi 70 anni (ne compie 69 fra pochi giorni) ha assunto l’aspetto di un wizard, quasi un mago Merlino nel castello di Hollywood, è seduto accanto a lui, tanto diverso quanto sarebbe impossibile immaginare. Alto, irrequieto, in costante movimento e agitato come un cucciolone giocoso, ora in piedi, ora di nuovo seduto, di nuovo in piedi, è Tom Hanks, l’attore di Forrest Gump, di Salvate il soldato Ryan, di Cast Away. di Philadelphia, di Apollo 13, del Codice Da Vinci. Anche lui, come Spielberg, e come dimostrano i personaggi della sua ormai lunga filmografia, attratto dalla solitudine dell’individuo costretto a muoversi contro la corrente del tempo e degli avvenimenti.
Tom, che ha dieci anni meno di Spielberg e sembra suo figlio sotto il cappellino da baseball, è nel film l’avvocato James Donovan, un ricco civilista specializzato in controversie assicurative, inaspettatamente scelto dal procuratore di New York e dal governo Kennedy per rappresentare Rudolf Abel, il colonnello del Kgb arrestato a Brooklyn per spionaggio e destinato, con la certezza di un treno sui binari, a quella sedia elettrica che già aveva arrostito spie come i coniugi Rosenberg. O meglio, per fingere di difenderlo, per dare a un processo già predestinato l’apparenza della legalità che gli Usa volevano esibire. Ma Donovan, che da giovane legale aveva fatto parte del processo di Norimberga contro i criminali nazisti, ebbe il torto, e il coraggio, di prendere sul serio il dettato costituzionale, di sfidare l’Fbi di Hoover e il governo, di imparare a rispettare quell’uomo magro, occhialuto e perennemente con la sigaretta tra le labbra, che il resto dell’America considerava un criminale deciso a polverizzare in un lampo atomico milioni di cittadini.
Una scelta che avrebbe salvato la vita ad Abel, avrebbe ottenuto dai russi lo scambio con il pilota dell’aereo spia U2 abbattuto in quei mesi, ma avrebbe distrutto la sua vita professionale e personale, nell’assedio furioso di una nazione, e dei suoi media, che lo giudicavano un traditore e un pazzo per voler difendere un colonnello venuto dal Male.
«Oggi, forse Donovan non ce l’avrebbe fatta a resistere» riflette Spielberg «nell’uragano dei social network. Le centinaia di lettere di insulti e di minacce che riceveva per posta, dai colleghi avvocati, dai vicini di casa, le paure della moglie per lui, per la famiglia, sarebbero esplose in milioni di tweet, di post, di manifestazioni di odio attraverso la rete, che lo avrebbero seppellito. Forse si sarebbe arreso e avrebbe lasciato che il giudice pronunciasse la condanna di morte». Ma il finto Donovan, Tom, si agita e dissente: «I miei figli non sarebbero d’accordo con te, Steve. Loro se ne infischiano di quello che viene sparato in rete, sono cresciuti in questo mondo di internet e di social network e sono indifferenti a insulti, campagne e haters, odiatori».
Ma nell’avvocato che rischia la carriera, la famiglia, la vita per difendere una spia al servizio di quella potenza «che non ci faceva dormire la notte al pensiero dell’attacco nucleare, che ci costringeva a fare esercitazioni a scuola per proteggerci dall’esplosione» ricorda Spielberg, c’è più della sua ammirazione per l’individuo che rema contro la corrente. C’è l’amore profondo per l’America, per la way of life di una nazione che di fatto – anche quando la racconta nella sinistra, allegorica minaccia di Duel o dello Squalo – celebra nei suoi valori fondamentali. È forse per questo che Spielberg non ha mai voluto fare un film sulla guerra del Vietnam: «Avrei voluto farlo tante volte, poi ho visto Platoon del grande Oliver Stone, Apocalypse Now di Coppola, uno dei più grandi film di guerra mai fatti, e ho capito che non avevo più niente da dire sul Vietnam».
Il tributo di Tom Hanks a quella guerra è invece in Forrest Gump, nella sequenza fra «Bubba», il soldato nero della Louisiana, Forrest e il tenente che resterà mutilato di ogni illusione e delle gambe nella macelleria del Vietnam. Una scena che, mi ricorda ora Hanks, divenuto serissimo, «decidemmo insieme, noi attori e il regista Zemeckis, di rendere il più possibile tragica, realistica e umana, e togliere ogni sospetto di ironia o di satira come in altre sequenza del film. Sul ’Nam non si può fare dello spirito».
Come serissimo, meravigliosamente cupo secondo il clima di quel tempo, ricostruito fino ai lugubri e precisi dettagli della burocrazia sovietica e della Ddr ricercati anche dai fratelli Coen – che hanno collaborato alla sceneggiatura del Ponte delle spie – è il viaggio di James Donovan dal tronfio studio legale di New York alle rovine desolanti della Berlino comunista. Un viaggio sempre attenuato dal sospetto, presente in tanti lavori di Spielberg, che esista, inconfessabilmente, inconsciamente, un elemento di rimpianto per tempi ed epoche durissimi, ma almeno temperati dalla coscienza di sapere dove stava il nemico e dove stavamo «noi». «È vero, avevamo paura, certamente ma con il tempo, e anche con lo scambio sul ponte di Glienicke, ci rendemmo conto che il nemico, per pericoloso che fosse, aveva un volto, era riconoscibile, lo vedevamo nelle foto e nei filmati e potevamo sperare che si sarebbe fermato, come noi, un passo prima di precipitare nell’abisso, come avvenne» dice Spielberg. «Oggi, non sappiamo più chi siano, che volto abbiano, che cosa vogliano coloro che cercano di ucciderci e sono pronti a farsi esplodere ovunque, come abbiamo visto. La confusione, l’incertezza, l’ignoto spaventano più dell’arsenale sovietico negli anni Sessanta». Dei sovietici, rilanciaTom, «sapevamo che erano essere umani come noi, in un sistema politico diverso, ma anche loro desiderosi di tornare a casa ogni sera, di vedere i figli crescere, di sedersi per un buon pasto caldo».
Magari non squisito come quello che Hanks ricorda di avere consumato a Roma insieme con Giancarlo Giannini e «Roberto Benini» (che sarebbe Benigni) in un ristorante vicino al Pantheon a base di pesce crudo, «che mai avrei immaginato di mangiare, così squisito, a Roma», mentre girava Angeli e Demoni. Ma pur sempre un pasto a casa.
Era un mondo in bianco e nero, come a volte sembra essere anche questo intensissimo film pur girato a colori, «noi» a un capo del ponte, «loro» dall’altro, separati da un Muro orrendo, ma rassicurante nella sua nettezza. Narrato nell’ambiguità sottile della spia russa, che rientrando a Mosca finì relegato in un ufficetto del Kgb senza avere null’altro da fare che funzionare da «pezzo di museo», come disse alla moglie, e nella appassionata difesa dell’avvocato americano che intuisce, senza mai osare dirlo, che nel Grande Gioco dello spionaggio reciproco c’era una garanzia che Urss e Usa si sarebbero fermati sul bordo del precipizio, conoscendo i segreti l’uno dell’altro. A differenza di quello scenario da Dottor Stranamore che, mi dice Hanks, «è il film preferito di mio figlio, che lo avrà rivisto novanta volte al telefonino». Prova che i grandi film possono essere visti anche in piccolo e non il contrario: «Quando guardo i dailies, le sequenze giornaliere dei miei film, sul piccolo schermo per il montaggio e poi li rivedo sul grande schermo a volte mi vengono le vertigini, perché in grande sono un disastro... Ma se il film racconta una storia, la grandezza dello schermo non ha importanza».
Come finì quella gelida giornata di febbraio, oltre al colossale raffreddore con bronchite contratto dall’avvocato, è scritto nei libri e si trova in rete, ma eviterò comunque di rovinare il finale. C’è però un segreto, nella scelta di quel luogo del film che lo stesso Spielberg scopri senza essersene reso conto. La strada che attraversa il ponte e si allunga verso Potsdam raggiunge dopo un chilometro una villa con un nome terrorizzante: il castello di Wannsee. Il palazzotto nel quale Reinhard Heydrich, Adolf Eichmann e altri gerarchi nazisti decisero e organizzarono la Soluzione finale. La Shoah.
«Non lo sapevo» si rabbuia Steve Spielberg, «e quando mi è stato detto, quando ho saputo che stavo percorrendo la stessa strada sulla quale avevano viaggiato Heydrich e gli altri per andare a decretare la Shoah, ho sentito il freddo della Storia entrarmi nelle ossa. Proprio da lì, da dove giravo il mio film, era partito tutto».
Diventa quasi ovvia la sua risposta alla mia altrettanto ovvia e immancabile domanda su quale, della sua sterminata produzione cinematografica, sia il suo film preferito: Schindler’s List, senza un attimo di esitazione. Tom Hanks, il ragazzone non più ragazzone, lo guarda silenzioso, esita un attimo in più e poi mi risponde: Cast Away, il naufrago sull’isola deserta. Un altro uomo solo contro il mondo, come Schindler, come in fondo tutti gli artisti, la gente di spettacolo che vive, anche al culmine del successo, «l’angoscia quotidiana di essere dimenticati e di fallire» come tutti e due mi rispondono all’unisono. Pensate: Spielberg e Hanks «non dormono la notte» temendo che domani nessuno li vorrà più, che il pubblico li dimentichi, che il loro successo sfiorisca. E che rimangano abbandonati a se stessi, sul ponte gelido che porta al tramonto.