ItaliaOggi, 27 novembre 2015
Quando Forattini prendeva in giro gli amici di Scalfari
«Caro mio, l’anno prossimo avrò 85 anni», dice commentando il dito di birra che la moglie Ilaria gli ha versato, rispetto al boccale colmo che ha riservato all’intervistatore.
Proprio così, Giorgio Forattini, è nato a Roma nel ’31, anche se ai suoi capelli bianchi, lunghi e folti, siamo da sempre abituati.
Per chi, negli ultimi 40 anni, sia stato un assiduo lettore di giornali, Forattini è stato un po’ come uno di famiglia che, con la sua matita, ha scandito la fine di una repubblica e l’inizio di un’altra: ha sparato Amintore Fanfani come un tappo di spumante, dopo la sconfitta del 1974 sul divorzio, e oggi disegna come un Pinocchio il premier Matteo Renzi, che pure a Fanfani qualcuno avvicina.
E proprio in questi giorni è uscito, per Mondadori, Il Forattone, 756 pagine delle sue vignette più belle, praticamente un Meridiano per immagini. Non solo, da questo pomeriggio e per tre giorni, Forattini espone molte opere originali alla galleria milanese Il Ponte (ponteonline.com) che andranno all’asta nei giorni 1,2 e 3 dicembre, con devoluzione di parte del ricavato al Fondo per l’ambiente italiano-Fai, per il restauro dell’abbazia romanica di S.Maria in Cerrate, nel Salento.
Domanda. Lei iniziò a Paese Sera, Forattini, ma tutti la ricordano per aver fondato Repubblica: quando il giornale di Eugenio Scalfari vide la luce, nel 1976, lei c’era con le sue vignette.
Risposta. Contribuì anche all’impianto grafico, perché quello a Paese Sera era stato il mio lavoro, poi Gianluigi Melega, che lavorava là, mi vide schizzare dei volti, qua e là, durante una riunione, e mi invitò a provare.
D. E quando Melega fu chiamato da Scalfari, lei lo seguì.
R. Esatto. Ho cominciato in redazione, stavo come tutti in uno stanzone di Piazza Indipendenza. E dove Scalfari, quando il pomeriggio cominciava a essere inoltrato, mi chiamava con l’interfono: «Giorgiooo, ’sta vignetta».
D. La voleva vedere
R. Ah beh, certo. E cercava di averla sempre prima, perché sapeva che sovente non gli sarebbe piaciuta, perché essendo lui un grande direttore ma un direttore di parte
D. E lei non è certo di sinistra
R. Un attimo, non sono mai stato di sinistra ma, di volta in volta, mi hanno dato del fascista, del qualunquista. Questa è una cosa tutta italiana.
D. Se dovesse definirsi?
R. Uno che ha sempre voluto fare satira e quindi necessariamente libero. Semmai liberale.
D. Per tornare a Scalfari, metteva alla prova il lettorato di quel giornale agli inizi, martellandone un’icona come Enrico Berlinguer. Lo raffigurava in genere in salotto, assiso, in vestaglia, sovente a prendere il thè, col ritratto di Marx alla parete, mentre dalla finestra saliva un vociare di manifestazioni
R. Eh sì e Scalfari ci soffriva. Per questo certe volte, mi diceva di no e, agli scambi con l’interfono, si alternavano i biglietti portati dal fattorino, a cui rispondevo puntualmente. Ne conservo tantissimi: dovrò farne un libro.
D. E come uscivate dall’impasse?
R. Andavo nella sua stanza. A volte perdevo e mi mettevo a fare un’altra vignetta, altre volte, mi impuntavo: «Basta, non ne faccio più. Mettici una tua foto». In genere la vincevo, perché Scalfari è sempre stato tollerante. «Giorgio, tu sfotti sempre gli amici miei», mi rimprovereva.
D. E lei?
R. E, io, di rimando, gli replicavo: «Direttore, ma chi frequenti?». E poi s’inalberava quando facevo troppo l’anticomunista: «Basta con Stalin, basta!».
D. Peraltro lei fu implicabile anche con Ciriaco De Mita, quando Scalfari se ne infatuò politicamente.
R. Io facevo satira e la satira si fa verso il potere.
D. Ma loro? I bersagli della satira?
R. Telefonavano a Scalfari, anche se lui non me l’ha fatto mai pesare.
D. Chi telefonava a lei?
R. Una volta Sandro Pertini, ma per perorare la causa di Bettino Craxi, che raffiguravo vestito d’orbace e col fez
D. Ricordo: un Benito Mussolini redivivo. E Pertini?
R. Pertini se ne lamentò garbatamente, chiedendomi di piantarla, anche perché non era giusto dare del fascista a Craxi.
D. Come se la cavò con una chiamata del Colle?
R. Gli dissi che non era una raffigurazione fascista ma piuttosto mussoliniana, non ideologica cioè ma personale. E credo d’averlo convinto.
D. Già, ma Craxi?
R. Lui, non si è mai fatto vivo: lo incontrai un giorno in centro, a Roma, e mi gettò uno sguardo asprissimo, ma non proferì parola.
D. Altre telefonate?
R. Un altro presidente, Francesco Cossiga, che era simpaticissimo e non si adombrava mai, anche se io ci davo dentro e una volta lo raffigurai persino con un piccone su per il sedere. Mi convocò al Quirinale, dove andai un po’ balbettante, intimorito, e invece lui fu cordialissimo.
D. Facciamo l’elenco degli arrabbiati. Cominciando da Massimo D’Alema.
R. Ah, per colpa sua me ne venni via da Repubblica, perché fu il primo che, querelandomi, anziché citare il giornale, chiese solo a me danni per tre miliardi di lire.
D. Beh, lei lo disegnò impegnato a sbianchettare la lista Mitrokhin, l’elenco, stilato dall’omonimo ex-agente del Kgb, degli italiani spioni pro-Urss in Italia.
R. La satira è satira. Sta di fatto che Ezio Mauro, allora direttore, non mi difese per niente, così me ne andai. E non appena ebbi lasciato Repubblica, D’Alema ritirò la querela.
D. Ce l’aveva con lei. Altre grane?
R. Ah, con Rosy Bindi che, da ministro della Sanità, disegnavo sempre nuda, con poppe orribili, saltellante da un letto a un altro. Mi querelò.
(A questo punto, la moglie, Ilaria Cerrina Feroni, squisita signora fiorentina cui è legato da oltre 30 anni, dissente: «Ma dai Giorgio, basta con questa storia delle querele, su»).
D. Scusi ma, dc per dc, Giulio Andreotti, che lei fece più incurvato di quello che era in realtà, non ebbe mai a che ridire?
R. Mai, nemmeno una protesta. anche se ho saputo che, quando feci vignette sullo sfondo mafioso, erano gli anni di Salvo Lima, i suoi figli gli chiesero di querelarmi. Ma la vicenda del povero Lima mi costò una giornata di apprensione.
D. E cioè?
R. Una vignetta, successiva all’omicidio dell’europarlamentare, in cui mostravo Andreotti infilzato da una lima. Il sostituto Antonio Ingroia l’ha prodotta nel processo sulla trattativa Stato-Mafia e mi ha voluto sentire come persona informata sui fatti.
D. E che le ha chiesto?
R. Sulla base di quali elementi avevo disegnato una situazione che configurava quell’omicidio con attacco al governo in carica. Io gli risposi che non ne avevo la più pallida idea e che era solo una vignetta.
D. Lei coi giudici, qualche problema l’ha avuto. Ricordo Gian Carlo Caselli.
R. Sì, querelò per una mia dura vignette su Panorama, dopo il drammatico suicidio del capo della procura cagliaritana, Luigi Lombardini, al termine di una giornata di interrogatori da parte della Procura palermitana.
D. Ebbe ragione Caselli e Panorama pagò 150 milioni di lire. Ma c’era qualcuno che la prendeva bene?
R. Giovanni Spadolini, per avendolo raffigurato sempre con un corpo enorme e nudo
D. E un pisellino irriverente
R. Se è per questo, una volta lo feci mentre si lasciava sfuggire un peto che suonava come la sigla del suo partito: «Pri».
D. E Spadolini non s’adirava? E dire che non aveva un carattere facile.
R. No, perché Scalfari lo convinse che la satira era indice di notorietà: alle nullità nessuno dedicava vignette. Anzi, poi la sua fondazione mi ha chiesto spesso vignette ad hoc, che io facevo volentieri. Loro, per ringraziarmi, mi mandavano libri su Garibaldi, credo di averne una ventina per la casa.
D. Chi altro simpatizzava?
R. Carlo Azeglio Ciampi, ribattezzato da me Ciappi nelle fattezze di un cagnone, per via delle sue folte sopracciglia, mi ha sempre fatto avere segni di stima. E pure Walter Veltroni, una volte che ci incontrammo, fu carino.
D. Ah sì? Quantunque, dalla sua matita, il segretario Ds e poi Pd uscisse come un enorme bruco?
R. Infatti. Lo incontrai con mia moglie, a Fiumicino, mentre stavamo per imbarcarci: fu lui ad avvicinarsi, dicendo: «Forattini, mia figlia si lamenta perché mi disegna sempre come un baco». Io ebbi la battuta pronta: «E lei le spieghi che tutti bachi si trasformano in farfalla, prima o poi».
D. Lei era dato per vicino ai Radicali. Ma con Marco Pannella com’è andata?
R. Lo ero, perché sono stato sempre grato per le battaglie civili che hanno condotto, specialmente sul divorzio. L’unico partito che mi garbava. E un anno avrebbero voluto che mi candidassi, ma non mi pareva il caso. Peraltro anche Pannella è finito spesso nelle mie vignette, talvolta incazzandosi pure lui.
D. Con Silvio Berlusconi, tutto liscio?
R. Sì, anche se lo disegnavo sempre alto la metà di sua moglie. Non interferì mai quando lavoravo per Panorama o il Giornale, anche se quando quest’ultimo non mi rinnovò il contratto, lui non fece un plissé.
D. Invece quando è stato che la politica abbia fatto arrabbiare lei?
R. Non c’entravano le vignette, pensi. Fu quando, nel 1993, nella sfida elettorale per Roma fra Francesco Rutelli e Gianfranco Fini, ebbi l’ardire, in un’intervista a Maria Latella, che mi piaceva di più il missino, perché portava belle cravatte.
D. Apriti cielo. Anche i guai del Cavaliere cominciarono per un analogo endorsement, diventando, di colpo, il Cavaliere nero.
R. Sì, ma io dissi feci una battuta. Eppure nei giorni successivi fui pure insultato per le vie di Roma. Fu allora che decisi di spostarmi a Milano. E pensare che poi Fini l’avrei sfottuto in tutte le salse.
D. Con i nuovissimi della politica come va?
R. Male, perché non si capisce più chi sono, si vergognano di quello che sono stati, la confusione è totale e, nella satira, la prima regolare è la caratterizzazione. Per questo, oggi, sempre più spesso mi occupo di politica estera. Stamane, per esempio, ho disegnato un Erdogan che, con la mezza luna della bandiera turca, tagliava in due il mig russo.
D. Per tornare all’Italia, lei disegna Renzi come novello Pinocchio...
R. Perché mi pare abbia una certa attitudine a spararle grosse. Lo so che lui è permaloso e se la piglia, ma dovrebbe sempre ricordarsi che la satira non è una coltellata ma una pernacchia.
D. Gli altri nuovi, chessò, Matteo Salvini, Beppe Grillo?
R. Li faccio, li faccio e so che non sono entusiasti, anche se Grillo all’inizio mi sembrava più positivo.
D. Oltre la politica lei ha fatto arrabbiare anche regioni intere.
R. Alcuni sardi non mi perdonarono la vignetta che feci dopo un fatto di cronaca alla fine degli anni ’80: fu quando a un rapito, il giovane Giorgio Calissoni, sequestrato con la madre, Anna Bulgari, fu tagliato un pezzo di orecchio.
D. Lei disegnò una cartina d’Italia in cui, al posto dell’Isola, c’era appunto un grande orecchio.
R. Noi che andavamo in ferie in Sardegna, dovemmo fare le vacanze con la scorta dei Carabinieri, i quali, alla fine, erano diventati di famiglia.
D. La scorta gliela dettero anche per una certa vignetta sulla mafia.
R. Certo, la Sicilia che trasformava nella testa di un gigantesco coccodrillo con la coppola: molti non approvarono.
D. E poi ci fu qualche problemino coi musulmani.
R. Sì, mi pare con l’ayatollah Khomeini, perché avevo giocato con la sua barba.
D. È vero che, quando andò a La Stampa, la chiamò l’Avvocato in persona?
R. Sì, fu quando ruppi con Repubblica per D’Alema e Gianni Agnelli fu davvero molto cordiale. E comunque La Stampa fu un passaggio importante: fu la prima a mettere le vignette in prima pagina, feci da apripista per molti. Per un po’ è capitato di cenare assieme all’Avvocato e poi feci tutta la campagna della Fiat Uno, ricorda la macchina «risparmiosa»?
D. Certo, da allora entrò nel linguaggio comune, non ricordavo che fosse sua. Quali colleghi apprezza di più?
R. Senza dubbio Altan, Massimo Bucchi e anche Vincino, anche se sono tutti diversi da me.
D. Quelli che non stima? Quando faceva Satyricon a Repubblica, ne aveva tanti con sé.
R. E non tutti bravi, alcuni un po’ volgari, ma si pubblicava tutto. No, chi non stimo non glielo dico, non importa (ride, ndr).
D. Di giovani bravi ne vede in giro?
R. No, e quello del ricambio è un problema. Mi mandano dei lavori, magari dal tratto perfetto, ma mi pare che manchino lei idee. Non basta saper disegnare, ci vuole una lettura dei fatti, l’aver approfondito, l’aver studiato.
D. Forattini, rimpiange qualche vignetta che non ha fatto? O ha rimorsi per qualcuna di troppo?
R. Ne rimpiango alcune, assai belle, che non sono state pubblicate: le ho messe nel libro. Rimorsi nessuno davvero.
D. Quanto è difficile fare satira in questa Italia?
R. Abbastanza, perché questa politica pervasiva non è incline a ridere di se stessa. Eppure saremmo il paese di Pasquino.
D. Roma le manca?
R. Molto, a volte, anche se tornarci è una sofferenza, dopo la perdita di mio figlio Fabio: vedere i luoghi dove abbiamo passeggiato a lungo assieme, riaccende ricordi che fanno male.
D. A Milano sta bene?
R. Benissimo. I milanesi sono di una gentilezza estrema, come si fa a non amarla? Semmai, quassù, non mi ha mai voluto bene una certa Milano radical chic.
D. Stile Natalia Aspesi?
R. Oh lei a Repubblica mi detestava e siccome, a un certo punto, era la responsabile della cultura, con le cui pagine collaboravo, mi rimandava indietro le vignette. Tolse il saluto anche a Ilaria quando ci mettemmo assieme. Avendo fatto a lungo l’ufficio stampa di Mondadori, la conosceva benissimo. Mentre in quel giornale mi volevano tutti bene: Melega, Gianni Rocca, Giampaolo Pansa. Ebbi qualche screzio con Giorgio Bocca, ma dopo e poca roba.
D. A Milano ha anche vissuto, se non ricordo male.
R. Sì alcuni anni, da bambino, quando mio padre faceva il dirigente dell’Agip e, prima ancora, della Snia, dalla quale, ricordo, tornava a casa con i vestiti che puzzavano terribilmente.
D. Deve molto ai suoi genitori?
R. L’avermi fatto crescere in una casa piena di libri è stato decisivo, per quello che sono stato dopo. Anche se li ho tenuti sulla corda, avendo preso e mollato tante cose: Giurisprudenza, l’Accademia d’arte drammatica, Architettura. Fino a fare il rappresentante di mio padre che, lasciata l’Agip, s’era messo in proprio, a Napoli, sempre nei petroli. Io giravo il Sud con una 500 a vendere benzina e derivati ai distributori indipendenti, che allora erano numerosi. Una formidabile immersione nell’Italia profonda.
D. Lavoro difficile?
R. Uhh, vendere mi riusciva ma poi farsi pagare diventava un’impresa. Lasciai quando vinsi il bando di Paese Sera.
D. Suo padre come reagì?
R. Ero già un uomo. Nel passato, però, quando avevamo manifestato una certa propensione alla satira e al disegno, non aveva nascosto il suo disappunto: «Non vorrai mica fare l’artista?». E poi non gli andava a genio l’ironia su un paese o sui suoi rappresentanti: era stato fascista, aveva fatto la Marcia su Roma, finita la guerra era stato anche menato dai comunisti che gli ruppero un braccio, non accettava che la patria fosse messa alla berlina.
D. Sua madre?
R. Mamma era dalla mia: «Eddai Mario, son giovani».
Mi saluta, facendomi dono di una vignetta autografata. “Quante ne ho fatte? Calcolo più di 20mila», e pregandomi di scrivere che all’asta i prezzi sono stati tenuti volutamente bassi, perché chiunque potesse partecipare. Fatto.