Dagospia, 27 novembre 2015
Loredana Bertè ricorda: Edoardo Agnelli «continuamente fatto», la dipendenza di Borg da cocaina e porno, le cene alla Casa Bianca con i Bush e i Bin Laden
Tratto dal libro di Loredana Bertè Traslocando – È andata così, Rcs Libri, scritto con Malcom Pagani.
1. La madre
Era una statua bruna. Una donna bellissima con i capelli sempre in ordine, i tacchi e le gonne strette con lo spacco. Una strafiga. I professori della sua scuola con me erano molto gentili e io non capivo il perché. Finché un giorno intuii che usare le buone maniere con la figlia, per un maschio dell’epoca, rappresentava la più facile delle scorciatoie per scoparsi la madre. Lei comunque non si faceva pregare. Quando usciva a tarda sera, potevi esser sicura che sarebbe rientrata la mattina dopo. Non si lasciava scappare un cazzo che fosse uno. Gli uomini erano prede che abbrancava senza reale desiderio, conquiste effimere, momenti di noia da mettere in fila. I suoi fidanzati in media duravano due mesi (…)
2. Paul Getty ed Edoardo Agnelli
(…) Paul è morto giovane ed era un figo della madonna. Lo conobbi che era minorenne. Si muoveva con la sicurezza di chi sa che in certi ambienti l’età è l’ultimo dei requisiti richiesti. Con la faccia da bambino e il destino crudelmente adulto, Paul conduceva una vita dissennata e avventurosa, occupando da artista maledetto il cielo stellato che brillava su Campo De’ Fiori, piazza Navona e i vicoli di Trastevere. Faceva sculture utilizzando le vecchie pompe di benzina in disuso.
Disegnava stelle e strisce sui distributori e poi li vendeva. Paul era anche uno straordinario graffitaro, uno alla Basquiat. Si manteneva da solo e nonostante la famiglia di origine aveva tasche vuote, vizi intensi e debiti sparsi: «Devo soldi a mezza città» diceva nel suo italiano yankee e, tra una notte in bianco e una festa, ospitava spesso il suo amico Edoardo Agnelli, il reietto della famiglia, figlio di Gianni. Si strafacevano. Edoardo svuotava i posacenere fino a ripulirli interamente e Paul lo accompagnava fumando canne tutto il giorno.
Quando andavamo in giro, Edoardo scherzava: «Se ci fermano polizia o carabinieri, dico che sono il figlio dell’avvocato Agnelli». E noi: «Col cazzo! Se ci fermano tu nondici proprio niente». Ogni tanto di essere controllati capitava davvero e, prima che potesse aprire bocca e abbassare il finestrino, lo minacciavamo: «Devi stare zitto, altrimenti ci mettono dentro».
Edoardo non fece in tempo a partecipare a tutte le nostre scorribande. L’eco delle sue imprese arrivò a Torino e insieme all’eco, puntuale, giunse anche la convocazione della casa madre. Lo richiamarono in Piemonte e buttarono la chiave. Come è finita per Edoardo, purtroppo, lo sanno tutti. Era continuamente fatto. Aveva vissuto sempre di eccessi e li aveva visti fin da piccolo, anche a casa sua. Ci ero stata ai tempi del mio breve flirt con Luca di Montezemolo. Nella reggia dell’avvocato c’era un clima gelido, presi Luca da parte: «Io me ne voglio anna’, domani torno a Roma».
3. Borg e i film porno
(…) La sua dipendenza dalla cocaina era mostruosa e aumentò con il passare dei mesi. Quando gli partiva il desiderio di farsi, non si frenava. Sembrava una macchina. Pippava e, se si metteva in testa che fossi io a nascondergli la droga andava fuori di testa. Mi prendeva le vestaglie. Le riduceva a brandelli alla ricerca di nascondigli segreti. Voleva la coca. La coca e basta.
Per la cocaina aveva lasciato vincere McEnroe a Wimbledon nel 1981, con grande scorno della madre, che aveva preparato nella madia lo spazio per la sesta coppettina del cazzo. Gli si era avvicinato in una pausa, dopo aver perso il tie-break del terzo set: «Dai che voglio farmi una striscia e andare a troie, sbrighiamoci». John lo aveva guardato con commiserazione e poi aveva fatto in fretta, chiudendo rapidamente la partita.
Con il passare del tempo, quella di Björn si trasformava in una serie di sconfitte. La polvere gli aveva cambiato il carattere. All’inizio scopavamo come trottole. Poi a un tratto – e non solo per ragioni agonistiche – smise di interessarsi a me e si dedicò alle seghe. Si masturbava per ore davanti ai film porno e qualunque tentativo di resurrezione si rivelava inutile. Sembrava impotente. Svogliato. Senza desideri che non fossero virtuali. Durante i rari viaggi, al momento del saldo, in albergo, la sua nuova passione per il sesso televisivo dava il la a siparietti imbarazzanti: «Signor Borg, ma lei ha visto questo film 24 volte, è possibile?». Gli inservienti del Beverly Hills Hotel mi guardavano in modo strano, indecisi se considerarmi moglie legittima o legittima zoccola. Mi vergognavo come una ladra. (…)
4. Bin Laden, Bush e le “ragazze” del circolo.
(…) Venimmo invitati anche alla Casa Bianca dal presidente George Bush. Il vero capo della Cia. Mi sembrò un guerrafondaio, un bugiardo e un mascalzone. Appena entrati, mi accorsi che mi volevano mettere un po’ da parte. Blandivano Borg, che doveva fare quattro scambi con Bush figlio, e guardavano con preoccupato sospetto sua moglie. Mancavano di umorismo, erano ossessivi e io decisi di farli impazzire.
Mi invitarono a visitare lo Studio Ovale e vidi appeso un grande quadro in cui Toro Seduto faceva bella mostra di sé: «Bello questo ritratto del primo presidente americano, complimenti» dissi. E quelli, che gli indiani li avevano sterminati a tempo debito, capirono l’antifona e sbiancarono. Avevo fatto una battuta, ma pretendere che la capissero era chiedere troppo. Mi mostrarono poi un enorme mappamondo di legno.
Sopra c’erano appoggiate alcune calamite e quella più appariscente, rossa come l’inferno, cingeva la città di Mosca. Mi avvicinai e mi ci sdraiai sopra: «Ma allora è vero che li osservate, i russi?». Mi affacciai fuori per vedere Borg e Bush giocare, ma iniziò a piovere e dopo pochi scambi la partita fu interrotta, con grande scorno di Bush figlio. La babbiona, la moglie di Bush Sr, mi guardava male. Avevo una borsa a forma di orsacchiotto, in tutto e per tutto simile a un peluche che Ilona Staller sfoggiava in Parlamento.
Con me i Bush erano un po’ a disagio. Mi sentivo osservata e a mia volta osservavo incredula uomini della Cia e dell’Fbi intenti ad asciugare con il phon un campo da tennis. L’operazione era vana, perciò il piccolo Bush suggerì a Borg di continuare la gara in un circolo privato: «Così mi fai vincere» disse a bassa voce a Björn, «e io rimorchio un paio di ragazze del club».
Andarono, Borg lo fece vincere e ci rivedemmo a cena alla Casa Bianca. Ospiti d’onore erano i Bin Laden, padre e figlio. Si muovevano come amici di famiglia. Avevano affari solidi con i Bush e non facevano niente per nasconderlo. C’erano ambiti fuori controllo. Onnipotenti che potevano giocare con i destini del pianeta. I Bin Laden e i Bush erano in cima alla lista.
Avevano affari petroliferi in comune e, come se non bastasse, l’America aveva anche un debito di riconoscenza con la famiglia che aveva contribuito a mandar via i russi dall’Afghanistan. Quando ci congedammo, Bush mi donò un blocchetto di biglietti da visita. C’era scritto solo «The President», senza intestazioni personali. Gli diedi una gomitata: «Geniale, così quando vi capita di ammazzarne uno non dovete neanche allertare le tipografie».