Sette, 27 novembre 2015
I 120 anni dei Lavazza, quelli che con un caffè hanno conquistato il mondo
«“Vado in ditta”. Così diceva mio nonno, quando ero piccolo. E il bisnonno (che aveva già trasformato il primo negozio torinese in impresa, ndr), prima di lui diceva ancora “vado in bottega”...». Negli anni 70 la “ditta” Lavazza era già bella grande, in realtà: la numero uno in Italia. «Rivela il loro atteggiamento. “Ditta” è qualcosa che devi fare ancora crescere», spiega Giuseppe Lavazza, 50 anni, vicepresidente, oggi quarta generazione al vertice (costituito da sei membri della famiglia) della multinazionale del caffè. «È stata la terza generazione, quella di mio padre Emilio e di mio zio Alberto (oggi è il presidente, ndr), a cominciare a parlare di “azienda”». Ed è ancora così adesso: “Vado in azienda” dicono i Lavazza. Anche se il gruppo di Torino è ormai un colosso: il quinto marchio di torrefazione a livello mondiale. «La sfida, però – per continuare a rimanere indipendenti – è di crescere ancora», aggiunge il cugino Marco Lavazza (figlio di Alberto), classe 1977, anche lui vicepresidente.
Sono 120 gli anni di vita appena compiuti – era il 1895 quando Luigi Lavazza la fondò – e per l’“azienda” che in Italia e nel mondo è sinonimo di caffè, il giro d’affari è arrivato a quota 1,7 miliardi di euro. «Quelli del petrolio hanno i barili, la nostra unità di misura sono anche i sacchi di caffè verde acquistati: noi adesso siamo a due milioni e 800 mila», dice Giuseppe. «L’obiettivo prossimo è di superare i due miliardi di fatturato. Non siamo lontani: il pezzo che manca vorremmo realizzarlo con l’ulteriore sviluppo dei mercati internazionali. Stati Uniti, Germania, Francia, Inghilterra e Australia, solo per citare i cinque più importanti. Oltre all’Italia, è ovvio: anche se, ultimamente, cresce poco o va un po’ indietro». Proprio questo propulsore è stato il filo conduttore lungo tutta la storia della Lavazza: «La voglia di crescere», ricorda ancora Giuseppe, che aggiunge: «Senza fermarsi».
Un principio che ha tanto l’aria di un imperativo familiare. Naturalmente declinato, a ogni generazione, in modo diverso. «Negli anni 50, il nonno aveva comprato la “macchina” a mio padre… In realtà, era un furgoncino! Doveva usarlo per andare a vendere il caffè. Prima lo mandò a fare la gavetta qui, in Piemonte; poi lo inviò in Sardegna a “fare i chili”, come si dice da noi». Fu una scelta lungimirante: oggi l’isola è una delle roccaforti italiane dell’azienda. «Ricordo anche i viaggi di mio padre», continua il vicepresidente. «“Dove vai?”, gli chiedevo. “In Africa”, rispondeva. Angola, Congo. Ma soprattutto in East Africa: Kenya, Tanzania, Uganda… Una volta all’anno partiva per il Brasile». I Paesi produttori dove comprare i sacchi di caffè. «Portava con sé i dizionarietti di varie lingue – come lo swahili – e qualche parola la sapeva anche dire. Erano viaggi avventurosi, alla Indiana Jones… Aveva la passione per i filmini: girava con la cinepresa Super8, e ogni volta che atterrava – con aerei bimotore di linea ma ancora con le alette laterali sulla coda! —, faceva una ripresa dell’aeroporto. Alcuni sono davvero inimmaginabili…».
Quando i chicchi erano come asfalto. Era stato il fondatore, Luigi, il primo a fare un viaggio al centro del caffè. Nel 1935, il governo brasiliano l’aveva invitato con una delegazione d’imprenditori italiani, in rappresentanza del mondo della torrefazione. «Partì con il piroscafo: era eccitatissimo, felice di andare finalmente a vedere, di poter apprendere dal vivo la cultura locale del prodotto a cui aveva dedicato la vita. Tornò sconvolto». Cosa gli successe? «Erano anni in cui c’era una sovrabbondanza di produzione. Così il caffè veniva utilizzato per gli scopi più svariati: come combustibile vario, perfino nelle locomotive al posto del carbone, o per pavimentare le strade», continua Marco Lavazza. «Lui comunque aveva una mentalità contadina: il padre faceva l’agricoltore a Murisengo (nel Monferrato, ndr) e aveva capito il valore del prodotto che nasce dalla terra. Aveva dovuto trasferirsi a Torino per necessità, quando i raccolti erano andati distrutti da annate di grandine». «Tornando dal Brasile convocò i figli», prosegue il racconto il cugino. «“Ho visto cose che mai più avrei pensato nella mia vita”, disse. “Capisco che questo mondo è cambiato, io non mi sento più parte di un sistema che sta andando verso una determinata direzione”. E iniziò a maturare il desiderio di ritirarsi e lasciare l’azienda ai figli. Pochi anni dopo arrivò la guerra e tutto fu sconvolto. Morì nel ‘48, e i figli continuarono l’attività, trasformandola da puramente commerciale a prevalentemente industriale, facendo diventare Lavazza la marca prevalente negli anni 60».
Miscela. Era stato questo il segreto di Luigi Lavazza. «Aveva il gusto di mischiare assieme caffè diversi, per provare qualcosa di diverso, per vedere come funziona, appassionandosi alla ricerca di materie diverse con specificità diverse», spiega il pronipote Marco. «E ancora oggi si fa come allora: il bello di questo mestiere, è che le regole di base non sono cambiate». «Prima di spostarsi a Torino, il bisnonno aveva lavorato nelle cantine dei principi di Carignano. Qui in città, fece di tutto», ritorna a parlare Giuseppe Lavazza. «S’iscrisse alle scuole serali, dove ha studiato – e si è diplomato – sia in commercio sia in chimica. Intanto lavorava: commesso, garzone in drogheria… Arrivò a dirigere una fabbrica di fiammiferi. Poi, però, decise di tornare in drogheria». Che, ai tempi, non era solo “vendita”; era un luogo di produzione: saponi, candele, profumi. «Il proprietario gli disse: vedo che sei bravo, vorrei che diventassi mio socio. “Sono lusignato”, replicò lui, “ma il mio obiettivo è di mettere su la mia”. E l’altro – invece di buttarlo fuori! – gli prestò pure i soldi: 10 mila lire, con cui ha rilevato il primo negozio». Ed è qui che nasce l’idea del caffè. «Allora era un consumo esotico, non era per tutti. Come oggi il caviale: faceva lustro. Capì che doveva personalizzarlo. Trasformarlo in qualcosa che la gente dicesse: “Il caffè di Luigi Lavazza è speciale”. S’ingegnò a fare le prime miscele».
La base artigianale di allora non è molto diversa da quella di oggi. «Ancora non esiste una macchina che possa dirti se quel caffè che stai comprando è buono», spiegano, incrociando le voci, i vicepresidenti. «Ci sono ovviamente esami fisici che aiutano. Ma le materie prime si comprano nello stesso modo dalla notte dei tempi. Il caffè lo acquisti in base ai difetti, che fanno il prezzo. E c’è l’assaggio, che deve farlo un essere umano. Come il vino o il profumo. Poi interviene la tecnica: una volta che, come avveniva tanti anni fa, dopo mille prove, imposti la miscela, la devi produrre in scala industriale. E allora la tecnologia permette di assicurarti un passaggio perfetto al 100% nei prodotti in vendita».
Di padri in figli. È il fattore umano del caffè che sopravvive alla dimensione industriale. Fattore umano e familiare: i Lavazza, che ormai guardano all’avvento futuro della quinta generazione («Un compito che teniamo presente tutti i giorni: sono già in otto, e potrebbero anche aumentare», dice Marco), rappresentano uno dei rari casi imprenditoriali in cui il passaggio di padri in figli non è stato dirompente. «Ma il nostro è tutto un comparto in cui la dimensione familiare è rimasta forte: anche dietro il grande gruppo di investitori tedeschi che sta crescendo e facendo acquisizioni in questo momento, c’è una famiglia», spiega Giuseppe Lavazza. La vostra, come è rimasta unita? «Il propulsore è stato sempre l’idea di crescere, di non fermarsi mai. Facendo a volte delle follie». In che senso? «Non è che gli affari siano sempre andati bene. A cavallo della guerra, per esempio, investivano come matti e s’indebitavano: per esempio con l’operazione delle figurine Lavazza, che aveva prosciugato le casse. Negli Anni 50, poi, decisero di costruire lo stabilimento di corso Novara, che costava molto: uno dei tre fratelli (della seconda generazione, ndr) non era d’accordo. “Aspettiamo, consolidiamo”, diceva. “Andiamo avanti, quelli che aspettano sbagliano”, pensava il resto della famiglia. Lui ha lasciato, gli altri hanno costruito ciò che hanno costruito».
Poi sono arrivati gli anni 70. Complicatissimi. «Si sono create condizioni assai rischiose: erano gli anni delle gelate in Brasile, del blocco valutario, dell’austerity, del caro petrolio, del deposito obbligatorio infruttifero per le importazioni, quando la lira non valeva più niente e l’inflazione era elevatissima…». Ma è spesso nelle difficoltà che nascono le idee migliori. E soluzioni nuove. «È alla fine di quel decennio che abbiamo lanciato la campagna pubblicitaria con Nino Manfredi – un grandissimo successo —, e il Crema&Gusto, che oggi è il prodotto più venduto in Italia. Nel 1982 abbiamo avviato l’internazionalizzazione, con Lavazza France. E in Francia, che oggi è il quarto mercato al mondo, stiamo per comprare – abbiamo fatto un’offerta, l’operazione è in una fase avanzata – Carte Noir, il marchio leader con il 20%. Così, nei primi tre mercati europei (il primo è la Germania, ndr), saremo i numeri uno in due su tre. E tutto questo è in gran parte autofinanziato, grazie al fatto che tutti gli anni gli utili vengono reinvestiti e non prelevati».
L’obiettivo, quindi, è di consolidare l’identità di azienda globale. «Globalizzazione non vuol dire “tutto uguale” ma complessità», precisa Giuseppe. «È il contrario della standardizzazione. Tutto il mondo del consumo tende a personalizzarsi, ciascuno – giustamente – cerca di affermare personalità e identità con le scelta di prodotto. In ogni campo si va sempre più verso il tailor-made». Il “su misura”. «Le miscele saranno sempre di più, e come player globale dobbiamo già ora offrire sempre più complessità». E così, per soddisfare consumatori d’ogni tipo e nazione, vengono creati prodotti sempre più innovativi, come – ultime nate – le nuovissime capsule compostabili («Le abbiamo pensate con l’italiana Novamont, ci abbiamo messo cinque anni», spiega Marco Lavazza) e si esplora una miriade di miscele diverse, a cominciare da quelle per i mercati anglosassoni e nordici, dove la necessità – ben diversa dalla “missione” di chi è nato pensando a moka ed espresso – è combinare il caffè con il latte.
Ma è proprio lo sguardo sul mondo a riportare la Lavazza alle sue origini. «Armando Testa (il pubblicitario, ndr) ebbe l’intuizione migliore», ricorda ancora Giuseppe Lavazza. «Riuscì a leggere la metafisica spirituale del caffè, un consumo che viviamo come momento di evasione, piacere, socialità. Capì che, per pubblicizzarlo, non si deve far leva sugli aspetti di prodotto, comunque importantissimi, ma sul divertimento». Ecco il legame che tiene insieme Carmencita, Nino Manfredi con Natalina e la “Campagna Paradiso” con Enrico Brignano: «Sono una finestra sulla leggerezza». E com’è stato ricreato, il loro spirito, nei mercati internazionali? «La comicità italiana è intraducibile», premette Marco Lavazza, «Perciò abbiamo cominciato a raccontare una storia». Quella, romanzata in modo lieve e spettacolare dal francese Jean-Pierre Jeunet, (il regista de “Il favoloso mondo di Amelie”, ndr), di Luigi Lavazza. «Che va in Brasile in piroscafo, torna in Italia, crea le miscele». Anche con un vago sentore di “spiritualismo magico” sudamericano. «E il protagonista non è un anziano signore con i mustacchi ma una specie di Sherlock Holmes giovane, positivo, energico», conclude Giuseppe Lavazza. Il protagonista di un’epopea nata 120 anni fa. Capace di conquistare il mondo a colpi di caffè.