MilanoFinanza, 27 novembre 2015
Eni apre nell’Artico la piattaforma petrolifera più al nord del mondo
Mentre le altre compagnie petrolifere rinunciano a esplorare l’Artico, Eni aprirà presto i rubinetti della piattaforma petrolifera offshore più settentrionale del mondo, ma a un costo notevole. In un giacimento nel Mare di Barents, quasi 300 miglia a nord del circolo polare artico, Eni dovrebbe cominciare a pompare dalla piattaforma Goliat prima della fine dell’anno.
Attiverà un flusso di 100 mila barili al giorno e si inserirà nel ristretto gruppo dei produttori della regione.
L’imminente inaugurazione dell’impianto sottolinea l’appeal dell’Artico ma allo stesso tempo mette in evidenza quanto sia complicato operare in una regione di frontiera dove il greggio è costoso da estrarre. Secondo Wood Mackenzie, l’ingente costo di questa attività, nel contesto del vertiginoso crollo delle quotazioni del greggio registrato negli ultimi 12 mesi, ha spinto molte compagnie a rinviare o annullare nuovi progetti per 200 miliardi di dollari su petrolio e gas.
Nell’ultimo trimestre Eni ha registrato la perdita più consistente da più di dieci anni (-1 miliardo di dollari a fronte dell’utile per 1,8 miliardi messo a segno nello stesso periodo dell’anno scorso) mettendo così in rilievo la pressione che il petrolio a buon mercato sta esercitando sulle grandi compagnie. Anche concorrenti quali Exxon Mobil, Chevron e Total hanno riportato forti cali nell’esercizio.
Nel mese di settembre, per esempio, Royal Dutch Shell ha staccato la spina a un progetto di ricerca nel circolo polare artico al largo dell’Alaska del valore di 7 miliardi di dollari in seguito a risultati insufficienti per quanto riguarda la quantità di greggio individuato. Anche Oao Rosneft e un consorzio che comprende Exxon e Bp hanno abbandonato i piani nell’Artico. Statoil, il partner norvegese di Eni che detiene il 35% di Goliat, ha sospeso la decisione di procedere con i lavori nel giacimento Johan Castberg, situato a nord-ovest di Goliat. Ma per Eni il progetto, del valore di 6 miliardi di dollari, era giunto a uno stadio troppo avanzato per essere annullato. E il successo nella ricerca di petrolio in Libia e in Egitto, contestualmente ai fallimenti dei principali competitor, ha incoraggiato il gruppo italiano ad andare avanti. Eni sta già estraendo petrolio da una piattaforma al largo delle coste settentrionali dell’Alaska, non lontano da dove Shell stava perlustrando. Tuttavia anche altri player insistono con quell’area, tra cui Repsol.
L’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi afferma che il mare di Barents «è del tutto diverso dall’Alaska settentrionale» perché il primo sito è privo di ghiaccio e prossimo a una zona popolata dove le compagnie petrolifere sono impegnate nell’esplorazione da due decenni. Infatti Goliat non fare i conti con il mare ghiacciato o con gli iceberg perché le acque calde dal sud assicurano un clima più temperato. Il progetto tuttavia comporta una serie di problematiche per Descalzi, visto che ha già superato il budget del 50% e ha accumulato due anni di ritardo. Quando, nel 2009, Eni ha dato il via libera finale al progetto, il Brent oscillava intorno a 70 dollari al barile e due anni dopo è salito a 126 dollari. Oggi invece il Brent scambia sotto 40 dollari. «Bisogna sempre essere pronti a operare intorno a 40-50 dollari al barile», ha commentato Descalzi. «Poi, se il petrolio è a 110 dollari si potranno raccogliere lauti guadagni da convogliare in investimento. Se invece crolla a 20 o 30 dollari, bisogna scordarsi il petrolio e pensare al carbone». Goliat potrà raggiungere il break-even se il Brent manterrà una media di 55 dollari al barile per la vita stimata del giacimento, che è pari a una quindicina d’anni, ha spiegato l’ad, un vero esperto di petrolio che ha costruito la propria esperienza nei quindici anni di carriera nel gruppo Eni, di cui ha preso il timone lo scorso anno.
Gli analisti sono invece meno ottimisti sulle prospettive di Goliat. Per Credit Suisse il punto di pareggio è oltre 100 dollari al barile. Citigroup calcola che senza ritardi e costi aggiuntivi il sito sarebbe stato redditizio con il petrolio a 75 dollari, ma ora sarebbe necessaria una quotazione di 122 dollari. «Goliat non è l’emblema della migliore operazione possibile per il settore», ha dichiarato Alistair Syme, responsabile globale della ricerca per petrolio e gas presso Citigroup. «I presupposti che avevano fissato erano errati e ora non c’è dubbio che Goliat si troverà ai vertici della scala dei costi del settore». Infatti Eni ha profuso grande impegno e ingenti spese per la piattaforma, studiata per resistere ai venti artici, al ghiaccio, alla neve e alle tempeste, cui va aggiunto il rispetto degli obblighi in materia ambientale imposti dal governo norvegese, che hanno ulteriormente fatto lievitare i costi. Le autorità hanno costretto Eni a posare un cavo elettrico di 50 miglia dalla piattaforma a Hammerfest, un borgo composto da colorate casette di legno. La richiesta era che Goliat alimentasse parzialmente l’area perché i generatori della piattaforma avrebbero emesso il doppio del biossido di carbonio. Inoltre Eni ha dovuto finanziare il potenziamento della rete elettrica di Hammerfest e la formazione dei pescatori locali per le operazioni di primo intervento in caso di fuoriuscita di petrolio. Materiali quali linee di contenimento, macchine pulisci-spiaggia e disperdenti sono stati predisposti sulla costa al fine di velocizzare un eventuale intervento di emergenza. Comunque vicino a Goliat è sempre presente una nave dotata di sonde ai raggi infrarossi per individuare eventuali fuoriuscite di petrolio anche durante i mesi in cui l’area resta completamente al buio. In aggiunta il gruppo italiano si sta occupando anche dell’effetto legato a gran parte dei contratti di lavoro siglati nel 2009 e nel 2010, quando il boom del petrolio aveva fatto salire i costi. Proprio per ridurli oggi Eni si appoggia in misura minore a collaboratori esterni.
(traduzione di Giorgia Crespi)