Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2015
Hollande e Putin non combattono la stessa guerra
Hollande e Putin concordano: siamo uniti in una grande coalizione contro l’Isis. Ma forse le coalizioni sono due, a doppia velocità o bicefale e le tensioni da guerra fredda con Mosca, tra Turchia e Ucraina, non aiutano.
La guerra al Califfato è molte guerre insieme. Per la Russia, l’Iran, gli Hezbollah libanesi e il loro protetto Bashar Assad i nemici sono tutti coloro che si oppongono al regime di Damasco: anche l’Isis ma non solo. Per la coalizione a guida americana con i francesi i nemici sono l’Isis e altri gruppi jihadisti: esclusa da questa lista l’araba fenice dell’opposizione laica o moderata.
Come se non bastasse si è aperto un fronte tra la Turchia, Paese Nato, e la Russia, che hanno obiettivi opposti. I nemici di Erdogan sono Assad e i curdi, che lo sia pure il Califfato è molto meno evidente. Anzi. Gli americani si fidano così poco di lui che in cambio della base aerea di Incirlik non hanno concesso ad Ankara la “no fly zone”, il divieto di sorvolo, né zone di sicurezza in territorio siriano.
Con l’abbattimento del jet russo, Erdogan per ora ha bruciato anche le legittime preoccupazioni della Turchia ai suoi confini. Non è riuscito a buttare giù Assad con l’appoggio dei jihadisti e si trova i russi all’uscio di casa. Dalle dolci colline a cavallo tra il confine turco e quello siriano, possono partire i missili di Mosca e Putin vorrà vendicare l’uccisione del suo pilota da parte dei ribelli turcomanni, addestrati e foraggiati da Ankara in funzione anti-curda. I turcomanni sono forse il 10% della popolazione siriana, più o meno come alauiti, cristiani, curdi, drusi e altre minoranze etniche e religiose.
La Siria è una sorta di Jugoslavia araba, un mix di etnie e culti: la morte di Hafez Assad nel giugno del 2000 fu un evento epocale paragonabile a quella di Tito, alle sue esequie parteciparono leader di ogni continente. «Nella bara ci sarà veramente dentro Assad o è desolatamente vuota?», si chiese allora l’ambasciatrice italiana Laura Mirakian guardando il feretro ermeticamente chiuso. Aveva avuto il lampo dell’intuizione: con la morte di Hafez, uomo abile, segreto, onnipotente, incline alle mosse astute e beffarde, si era svuotata la Siria e cominciava il declino. Henry Kissinger, estimatore di Hafez, sostiene che prima di abbattere Bashar la priorità è distruggere l’Isis: lo scriveva un mese prima della strage di Parigi.
La coalizione per funzionare deve trovare un terreno comune, una spartizione di compiti e di territorio che potrebbe preludere alla divisione della Siria e forse dell’Iraq. La Russia e l’Iran intendono assicurare al regime l’asse Nord-Sud, Aleppo-Damasco, con la zona costiera alauita. Americani, francesi e alleati, secondo quanto fatto capire da Hollande e Obama, non metteranno gli stivali sul terreno ma con i bombardamenti e le truppe speciali puntano a eliminare la leadership jihadista a Mosul e Raqqa. Se la duplice coalizione avrà successo – e non è detto vista la resilienza degli attori in campo – avremo una Siria dell’Ovest e una dell’Est con un pezzo di Iraq sunnita. Ma oltre alla distruzione dell’Isis e all’uscita di scena di Assad, che chiedono con insistenza Obama e Hollande, ci si dovrà interrogare su cosa fare del Califfato.
Forse, come in una vecchia canzone che ritorna, avremo una Jugoslavia araba, sempre che rimanga qualche pezzo del suo disgraziato popolo che come la ex Jugoslavia di Tito cominciò ad affondare senza saperlo nella penombra di un’estate lontana.