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 2015  novembre 27 Venerdì calendario

Fra gli italiani che si barricano nelle villette

Nelle villette della paura, con i puffi sugli scalini e i vasi di gerani sui balconi, i campi di grano che si sperdono davanti fino all’orizzonte, attorno al crocifisso in fondo allo sterrato, lasciano un senso di pace che viene da lontano, quando nella cascina là dietro, Santino Pansa correva sull’aia e i ladri rubavano solo qualche gallina. «Ma li conoscevamo tutti», dice.
Adesso, in questi tenebrosi colori vespertini, quei campi sono l’anticamera del terrore, «perché rappresentano il vuoto, il silenzio e la nostra lontananza, tutta la solitudine della nostra condizione di vittime», come dice il signor Militello, raccogliendo le foglie d’autunno del suo giardino.
L’Italia delle villette è l’ultima frontiera della nostra sconfitta, l’immagine di un Paese costruito dai geometri nell’epoca della sua fortuna, quando il benessere di massa spingeva la gente a fuggire dalle angosce delle metropoli per cercare riparo in queste oasi di tranquillità, dove crescere i figli nella natura, nel silenzio che adesso ci spaventa e in questo isolamento che ci condanna, fra i brandelli di un mondo che avevamo sognato. Militello è venuto qui, a Lucino di Rodano, 40 anni fa.
Il sociologo Giuseppe De Rita disse che l’Italia in quel tempo «diventò borghigiana, anziché borghese», inseguendo un sistema sociale che rappresentava i valori bucolici e idilliaci dei borghi. Anche Militello fece questa scelta. Lavorava all’Ibm, settore finanziario. Ha piantato gli aceri in giardino, un faggio, la magnolia e una quercia che oggi ha l’età della sua casa, con le mura candide e gli infissi di legno. «Ma se viene dentro le faccio vedere le tappezzerie strappate e le poltrone sfondate», dice. «Sono venuti i ladri 12 volte. Cinque negli ultimi due anni». Quand’era venuto, non c’era neanche la strada, qui davanti, e c’erano solo due ville, la sua e un’altra. Poi si stava così bene che improvvisamente arrivarono a frotte, «e noi facemmo una cooperativa e ne costruimmo 48».

Il benessere perduto

Adesso sono quasi solo villette, fra le viuzze squadrate con i nomi dei grandi d’Italia, da Boccaccio a Matteotti e Silvio Pellico. Le cascine sui campi le hanno abbandonate, non ci lavora più nessuno. «Anche la mia è vuota», racconta Pansa. Si stava solo in queste case Anni 70 e 80, in questi simboli del benessere, con le ringhiere dipinte di verde, i prati all’inglese e i cespugli vicino al cancello.
Ma oggi tutti gli allarmi sono collegati ai carabinieri o a gruppi di guardie private e vedi dappertutto cartelli come questo appeso davanti alla porta di Militello: «Area videosorvegliata». Appena in là ce n’è subito un secondo: «Area protetta da sistemi di sicurezza Inim». In via Giusti ce n’è un altro un po’ più antiquato: «Attenti al cane». E in via dell’Ontano, a Rodano, ce n’è ancora un altro che avvisa addirittura che in quella casa opera il «Controllo del Vicinato». Anche qui hanno fatto un comitato di sicurezza degli abitanti, e il coordinatore, Pierluigi Antoniotti, è quello che ha «chiamato i carabinieri, il giorno della rapina». Li hanno chiamati in tanti. La signora Rina Spinelli racconta che pure suo nipote, Stefano Spinelli, aveva telefonato, «perché aveva visto una macchina con brutti ceffi che continuava a girare in zona».
Le stradine ordinate
Però, hanno paura che tutto questo non serva a niente, come ripetono Militello e Matteo Notarangelo. «Una sera che li ho chiamati mi hanno risposto che erano già fuori per un’altra rapina», dice Nicola, al bar caffè «Non solo Barbera», una specie di pub inglese dietro il campanile aguzzo della chiesa di paese. Matteo ha subito due furti: «Una sera i ladri sono entrati anche dalla mia vicina. Ci ha chiamati, io e Santino abbiamo preso una pila e siamo andati a vedere cosa stava succedendo. Ma avevamo tutti paura di entrare. Nessuno di noi era armato e questa gente non ha paura di uccidere». Militello spiega che quando torna a casa, guarda bene che non ci sia nessuno dentro: «Una volta ero appena uscito a comprare il pane e quando sono rientrato c’erano già la porta divelta e i vetri rotti».
Eppure, ricorda la Rina, «l’era minga cusì, questo era un posto dove si stava da Dio». Anche lei ci era venuta quarant’anni fa, quando le città erano percorse dai terroristi e dalle grandi rapine in banca e le sue strade erano chiuse da cortei oceanici. «Siamo sempre stati bene qui. È solo adesso che è cambiato tutto». E anche Militello se lo ricorda bene quand’era venuto qui, e il suo bambino era piccolo: «Era una gioia per noi, lui cresceva in un ambiente favoloso. Di fronte c’erano questi campi di grano, a volte il mio giardino arrivava fino lì prima che il Comune ce lo espropriasse in parte per fare la strada». Pansa ricorda che fino a poco tempo fa, «mio suocero non aveva mai chiuso la porta di casa a chiave». Abita lì, dice, mettendo il piede giù dalla bicicletta, mentre indica una di queste case tutte uguali, con il suo giardino davanti e le ringhiere pitturate di fresco, simboli di un Paese smarrito, che ormai facciamo quasi a fatica a ricordare.
Eppure, è rimasto quest’ordine quasi irreale, fra le stradine tutte linde e pulite, e i giardini rimessi a nuovo ogni volta, come se fosse l’ultimo baluardo davanti alla violenza che li assedia. È come se il mondo ideale, che avevano inseguito per sfuggire alla crisi delle metropoli, ricostruisse disperatamente la sua immagine frantumata. Non è così facile. Gandhi diceva che «il nemico è la paura. Si pensa sia l’odio. Ma è la paura».
Nella casa di Militello, le pareti sono ancora tutte slabbrate, con la tappezzeria strappata dai muri e qualche poltrona sfondata non è stata buttata via. Fuori, lui ha finito di pulire il giardino e un acero rosseggia nel tramonto. Dentro, è un’altra cosa. È nel cuore la nostra sconfitta.