Corriere della Sera, 27 novembre 2015
«Bergoglio non è un santino». La versione cinematografica del Papa raccontata da Luchetti
È già difficile raccontare la vita di un uomo illustre quando è morto senza scivolare nell’agiografia, figurarsi quando è ancora in vita. E al centro dell’attenzione mondiale come papa Francesco. Per questo la prima preoccupazione di Luchetti, dirigendo Chiamatemi Francesco, è stata – per sua stessa ammissione – quella di non trasformare Bergoglio in un santino. Anche a rischio di cadere nell’eccesso opposto.
Il film, che si apre e si chiude nei giorni del Conclave e dell’elezione al Soglio pontificio del cardinale argentino (affidato all’attore Sergio Hernández), sceglie di raccontare alcuni momenti della sua vita da gesuita: la conversione, il periodo al Colegio Máximo e la vita ai tempi della dittatura, il confronto/scontro con i confratelli vicini alla teologia della liberazione, le sue scelte a favore di una Chiesa che si dedichi agli ultimi e ai disagiati. Non tutto è raccontato in maniera piana e distesa, alcune situazioni e persone lasciano aperti problemi di identificazione in chi non sia esperto di storia ecclesiastica latino-americana (il prelato da cui va dopo l’uccisione del vescovo Angelelli e che gli offre i dolci è il nunzio apostolico Pio Laghi? Quello tanto amico dei militari torturatori?), così come si vorrebbe saperne di più sulle ragioni della sua carriera: che cosa ha fatto per essere nominato superiore provinciale? Perché il cardinale Guarracino vuole proprio lui, «esiliato» in una parrocchia periferica, per la carica di vescovo ausiliario di Buenos Aires? Ma forse questi salti e queste ellissi servono proprio per evitare di trasformare il film in una «semplice» biografia e puntare invece l’obiettivo sul sacerdote e le sue qualità.
Affidato al volto severo dell’attore Rodrigo de la Serna, il giovane Bergoglio del film deve confrontarsi con un mondo che fatica a tener salda la barra dell’insegnamento cristiano. In tutti i momenti cruciali del film, la tentazione sembra essere quella di deviare dalla «retta via», sia accentuando l’impegno nel sociale sia facendosi complici della dittatura. Non è semplice tenere una posizione «equidistante», capace di conciliare il rigore teologico con l’amore per il prossimo (specie quello più sfortunato), ma sembra proprio questa la scelta del gesuita Bergoglio. Ed è questo che il film vuol far emergere.
Ecco allora il salvataggio dei giovani seminaristi fatti fuggire in Uruguay ma anche il suo rifiuto della teologia della liberazione, la sua disapprovazione per i confratelli che hanno scelto di vivere fuori dalle parrocchie ma il suo intervento per liberare chi è stato fatto prigioniero e torturato. E l’impegno di dare voce a chi non ce l’ha di fronte al potere. Momenti diversi che trovano il loro senso più profondo nella scena finale del Papa che si affaccia su piazza San Pietro e che il film affida allo sguardo dello spettatore con pudore e rispetto.