Corriere della Sera, 27 novembre 2015
Albertini e la guerra (persa) con Mussolini. Novant’anni fa l’addio forzato al Corriere
Il 28 novembre 1925, in un articolo di fondo dal titolo Commiato, i due fratelli Albertini, il senatore Luigi e il fratello Alberto, direttore in carica, annunciavano il loro addio al «Corriere». Poche righe, un saluto asciutto, senza un filo di retorica: un ringraziamento ai lettori e all’intera famiglia del giornale, che tanto avevano concorso al successo del più grande quotidiano italiano. Quelle parole però trasmettevano – e trasmettono ancora oggi, novant’anni dopo – tutta l’angoscia di una perdita irrecuperabile e la disperazione di chi si vedeva costretto a privarsi di un bene più caro della stessa vita. Al «Corriere» «avevo consacrato la mia intera esistenza», scriveva Luigi Albertini, che a partire dal 1900 aveva trasformato il foglio milanese in un moderno giornale nazionale, il più autorevole, il più letto, l’unico ad avere risonanza nella stampa internazionale. Lasciava dopo 25 anni perché alla dittatura fascista non si era piegato in nome della sua fede nel liberalismo, quella fede che aveva «servito a costo di ogni maggiore dolore», a costo «del maggiore sacrificio», quello appunto del «Corriere». Mussolini aveva vinto la guerra contro Albertini e la sconfitta di Albertini certificava il crollo dello Stato liberale.
Sull’Italia calava definitivamente la cappa del regime e si spegneva la sola voce libera che aveva resistito fino all’ultimo alle intimidazioni, alle aggressioni, alle violenze fisiche e morali subite da tutti gli oppositori antifascisti ridotti al silenzio, racchiusi nelle carceri, costretti all’esilio o uccisi dalle squadre fasciste nel sanguinoso percorso verso la conquista del potere.
C’è una stretta correlazione tra le tappe che scandiscono la distruzione dello Stato liberale e la vicenda del «Corriere» di Albertini, un liberale moderato che amava definirsi erede della Destra storica. Come la gran parte della classe dirigente liberale, aveva sottovalutato le conseguenze distruttive della Prima guerra mondiale, di cui si era fatto alfiere, e aveva sottostimato i compagni di strada tra i quali lo stesso Mussolini, che nel 1915 lo aveva affiancato nello schieramento interventista. Eppure fin dal 1919 si era scontrato con nazionalisti, dannunziani e fascisti che avevano assalito l’edificio del «Corriere», allineato alle posizioni di Wilson e di Bissolati sulla questione di Fiume. Da allora qualcosa si era spezzato, anche se l’antisocialismo avrebbe continuato fino alla marcia su Roma a fare da collante tra liberali e fascisti, tra Mussolini e Albertini, due uomini agli antipodi per ideali e valori, ma anche per carattere, cultura, estrazione sociale. Accecato dai sommovimenti del biennio rosso, Albertini non riusciva a percepire la minaccia dei neri. E quando se ne rese conto, era ormai troppo tardi.
La via crucis del «Corriere» iniziava il giorno stesso della marcia su Roma, quando Luigi e Alberto Albertini decidevano di non fare uscire il giornale per timore di rappresaglie squadriste. L’autosospensione durava un giorno; dal 30 ottobre 1922 in poi il «Corriere» continuava le pubblicazioni, incurante dei sequestri e dei roghi del giornale che si moltiplicavano. Poi il «Popolo d’Italia» iniziava a minacciare lo stesso Albertini, Un grande nemico, definito così nell’articolo di fondo del 2 marzo 1923. Malgrado l’esistenza del senatore e della sua famiglia fosse in grande pericolo, Albertini non cedeva; anzi metteva da parte ogni prudenza al momento dell’assassinio di Matteotti e diventava uno dei registi dell’Aventino, l’ultima estrema battaglia perduta dagli antifascisti. Sperava in un moto di coraggio e di orgoglio da parte della borghesia sana, che invece restava muta. Il silenzio degli industriali era il titolo di un fondo sul «Corriere» firmato da Luigi Einaudi il 6 agosto 1924; una denuncia amara: «I capitani dell’Italia economica tacciono» quasi che la soppressione di ogni libertà politica non li riguardasse.
Proprio sui poteri economici Mussolini faceva leva per chiudere la partita contro gli Albertini, proprietari insieme agli industriali cotonieri, i fratelli Crespi, del quotidiano milanese, ormai diventato una vera ossessione per il Duce. Era riuscito a far tacere quasi tutta la stampa dell’opposizione liberale, democratica, cattolica, socialista e comunista, costringendo a cambiare i direttori delle testate o chiudendole d’imperio; ma gli Albertini possedevano il giornale e non era prudente neppure per Mussolini ordinare l’eliminazione fisica del senatore, che avrebbe fatto troppo scalpore in Italia e all’estero.
Ripiegò su un’altra strategia, quella cioè di strozzare il «Corriere» privandolo della sua linfa vitale, la pubblicità. Con le buone o con le cattive gli inserzionisti storici, dagli Ansaldo, alla Fiat, alla Magneti Marelli e alle tante piccole e grandi aziende, disertavano e nessun nuovo abbonamento veniva acceso. Le pressioni di Mussolini e le manovre di abili avvocati risolvevano la situazione definitivamente.
Albertini, che si era sempre rifiutato di vendere ai Crespi il suo pacchetto azionario, alla fine era costretto da un cavillo giuridico a consentire la rottura del rapporto contrattuale tra le due famiglie – e i Crespi pagavano a caro prezzo il riscatto delle loro quote. Farinacci, punta di diamante della battaglia contro il «Corriere», cantava vittoria: «Oggi Albertini è un vinto! La vipera che tanto veleno schizzò, è finalmente schiacciata dal tallone fascista». («Cremona Nuova», 21 novembre 1925). Sette giorni dopo, gli Albertini, a testa alta, lasciavano via Solferino.