la Repubblica, 27 novembre 2015
Tutto è abissale in Heidegger, tranne Heidegger. Pesava tra i 62 e i 65 chilogrammi
Tutto è abissale in Heidegger. La parola, il mondo, la patria, la scrittura, la verità, il popolo, l’università, il sapere. Tutto è ricompreso nella riflessione radicale, estrema, impossibile. Tutto è abissale in Heidegger, tranne Heidegger. Il suo peso forma oscillava tra i 62 e i 65 chilogrammi. Sarebbe stato un buon peso welter. Insolenti baffetti. Piccolo, compatto, resistente. Fatto con il legno della stessa baita di Todtnauberg, in grado di sopportare tempeste di neve e di vento. Era il privato a snervarlo. Come molti mariti stanchi del ménage, tradiva. L’eros, prima ancora che necessità platonica, era istinto risvegliato da donne più giovani, possibilmente allieve. Per tutta la vita, l’uomo geniale, convinto del proprio ruolo insostituibile, è vissuto in una sorta di totale schizofrenia fisica e mentale. Da un lato l’abisso, dall’altro il ron ron, la quotidianità mal sop portata e mai gradita. Chiacchiera dalla quale difendersi con un principio di solitudine. Era questo Heidegger? Ora scopriamo che anche all’interno della scrittura vigeva una forma di schizofrenia: da un lato ciò che è pubblico dall’altro il privato, come si ricava dalla lettura dei Quaderni neri (tradotti per Bompiani con rapidità e efficacia da Alessandra Iadicicco). A quale necessità questi scritti “segreti” rispondono? A quale migliore offerente: l’anima, il pensiero, il desiderio, l’Essere? A che ora si congedava dal pubblico ed entrava nell’intimo dei propri pensieri? Si è prodotto molto clamore attorno ai Quaderni. Li si è visti (e letti) come l’esito di un Arcangelo caduto nel mondo che dispiega ancora le sue enormi ali e crea tempesta e provoca vittime. A cominciare dalla ben nota questione: il suo inscalfibile antisemitismo. Perché alla fine della nostra piccola fiera filosofica, sembra questo il dato di accusa più pungente e inaggirabile: l’ebreo ridotto a questione metafisica e perciò stesso agente (segreto) di una devastazione annunciata nei secoli e protrattasi fino ai giorni nostri, nel Novecento che finì di battere la sua ora con l’ingresso dei totalitarismi.
Eppure, i Quaderni neri non hanno solo la pretesa di volatilizzare l’ebraismo nella metafisica; non vogliono semplicemente fornire una ragione filosofica all’antisemitismo. Se davvero Heidegger fosse quella canaglia celiniana armata di stile e di bastone, allora potremmo concludere che il suo pensiero fu un grande e intollerabile equivoco. Tutto qui? Un momento. Ora abbiamo sottomano i Quaderni che vanno dal 1931 al 1938. Non c’è ancora traccia di quello scandalo planetario che il suo antisemitismo ha prodotto. E allora cos’è esattamente questo Libro nero?
Heidegger non scrive un diario, non parla di incontri, di persone viste. Non annota il farsi dell’esistenza. Semplicemente l’esistenza non gli interessa. È il filosofo dell’anti-umanesimo. Non gli importa dell’uomo, delle sue passioni, dei suoi patemi, delle sue contraddizioni. La filosofia ha altro cui pensare. È rarefazione, è pensiero ad alta quota, dove la vita si restringe, si disanima, perde consistenza. Ma non è il territorio della metafisica che Heidegger predilige, e anzi demolisce senza preoccupazione, bensì quello di un “altro inizio”. Quante volte, ossessivamente, batte su questo punto. Ci avverte che l’inizio non si lascia mai rappresentare, bensì solo compiere. Non desta immagini, non produce linguaggio. Non è ciò da cui tutto si origina. L’inizio heideggeriano ha i tratti della salvezza. Contro le degenerazioni della modernità e contro la distruzione della Terra porta dentro di sé il compimento. Non pretende né aspira a una forma storica, ma a un destino. Ecco perché può scrivere che l’inizio è «rianimazione del nostro popolo e del suo compito». E il popolo al quale allude è ovviamente quello tedesco. Radicato nella terra, ha le sue linee fondamentali nel lavoro e in chi lo guida. Il lavoro è la gioia dello stare al proprio posto e svolgere il proprio ruolo. La guida è il Führer. Il compito è quello di superare, anche spiritualmente, la divisione in classi.
I Quaderni si compongono di tante cose: a più riprese Heidegger torna su Essere e Tempo, opera strepitosa che ha finito col stancarlo e deluderlo. Non la ama. In parte la ripudia. Si infastidisce all’idea che si possa parlare di una filosofia heideggeriana. Sbeffeggia coloro che spremendola ne ricavano un succo esistenzialista. È sprezzante con Karl Jaspers, la cui filosofia giudica sciatta e insipiente. La sua acredine verso l’esistenza umana nasce dalla convinzione che ogni uomo subisce il peso della propria mediocrità, aspira al chiasso, allo spettacolo e rinuncia al domandare. In pratica l’uomo non desidera filosofare, né ascoltare. E l’analitica esistenziale che occupa così tanto spazio in Essere e Tempo? Se potesse Heidegger riscriverebbe il suo capolavoro, «ma per questo non c’è tempo. Altri compiti».
Si è fatta poca attenzione all’“Esserci che è gettato”. C’è un’azione più deprimente e infima del “gettare”? Sommo è il disprezzo con cui Heidegger immagina questo “meteorite” finito nelle pieghe della terra. È uomo e non è uomo. L’Esserci heideggeriano evoca qualcosa di mostruoso: la tabula rasa, il grado zero, l’esistenza mancata. Nel disvalore, nell’assenza di etica, si erge la sua idea del politico. Occorre saper prendere una decisione. Che non è decisione per il bene o per il male (come vorrebbero Kierkegaard o Dostoevskij) ma decisione fine a se stessa. La decisione è il motore dell’altro inizio, è mettersi in cammino, senza sapere per dove né quando. La vita per Heidegger non ha un perché. È come la rosa. Non chiedersi mai perché esiste. Essa c’è. Così l’uomo. Creatura spezzata che va ricomposta. Ma come? Heidegger detesta l’umanesimo, diffida dell’etica cristiana, più che mai di quella borghese. Non c’è salvezza neppure nelle ideologie e nelle dottrine che le sorreggono. Marxismo, comunismo e liberalismo, sono guardati con disprezzo. Al nazismo riserva un’attenzione ambigua, che va oltre la storia. Non ne ama la volgarità, ne respinge il “materialismo etico” e il “torbido biologismo”. Dileggia “i molti che adesso parlano della razza e del radicamento del suolo”. “Il nazionalsocialismo”, scrive, “è un principio barbarico. Questo è il suo tratto essenziale e la sua possibile grandezza”.
Heidegger sa di vivere in “un’epoca del passaggio” (le sole ad essere storicamente decisive), sull’orlo dell’estrema disperazione. Il nuovo che ne può scaturire è barbarico perché non sottostà alle leggi imperanti. È questo il destino del popolo? In quale contesto tutto ciò va realizzato? È contro la tirannia della tecnica, contro la piattezza del pensiero scientifico, contro il progresso fondato sullo sfruttamento della natura, contro i mezzi di comunicazione è contro tutto ciò che ha reso la parola indigente. Ma non vi è in lui nessuna nostalgia del passato. Tacere. Pensare in segreto. Scrivere per una posterità di venturi. È la missione che si è data. Misteriosa. Innocente: «Il pensatore? Un grande bambino che pone grandi domande». L’enfasi percorre i Quaderni. Tutto è drammatico e intollerabile. Rischioso. Ma se non ci fosse il pericolo non vi sarebbe pensiero. Il grande dispensatore di frasi a effetto si erge sull’epoca del nichilismo. Egli è lì, alla guida della sua macchina delle iperboli, di fronte all’abisso. Ne è attratto e spaventato. Scalpella il nulla. Non ha secondi fini. Fräu Elfride serve la zuppa d’orzo. Per un momento l’Esserci sembra cadere e confondersi in quella minestra saporita, tra le perline opache e dense delle quali il filosofo è ghiotto.