la Repubblica, 27 novembre 2015
«Laurearsi a 28 anni con 110 e lode non serve a niente». L’ha detto il ministro Poletti. Polemiche
Meglio laurearsi il prima possibile ma con un voto basso che perdere tempo prezioso per conquistare la lode. Parole del ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ieri a Verona, incontrando gli studenti delle scuole superiori, non ha usato mezzi termini per dire come la pensa sui percorsi universitari dei giovani italiani. Spesso troppo attenti alla forma e meno alla sostanza, visto che il mercato del lavoro non sempre aspetta chi indossa la coroncina d’alloro verso i trent’anni. «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, meglio prendere 97 a 21» ha detto Poletto ai ragazzi presenti al salone Job&Orienta.
Un’affermazione che ha scatenato il dibattito sui social e che ricorda lo sventurato “choosy”, cioè “schizzinosi”, con cui nell’ottobre del 2012 l’allora ministro Elsa Fornero aveva appellato i ragazzi italiani: «Sul lavoro – aveva detto ai giovani in un convegno, innescando un putiferio – non dovete essere schizzinosi».
Così come l’antipatica provocazione del suo viceministro Michel Martone di qualche mese prima: «Laurearsi dopo i 28 anni – disse – è da sfigati. È bravo, invece, chi sceglie un istituto professionale. Bisogna dare messaggi chiari ai giovani».
Il dito, oggi come allora, è puntato da parte del ministro sul perfezionismo dei nostri studenti che, non accontentandosi, perderebbero occasioni preziosi. Un tema che ha scaldato i social e scatenato di nuovo il dibattito.
«Il messaggio di Poletti ai giovani è deprimente, come dire fate il meno possibile tanto è solo un pezzo di carta, un inno all’ignoranza» cinguetta un ragazzo su Twitteri. Ma rastrella anche consensi: «Chi critica #Poletti o non è mai stato all’università o ci è rimasto parcheggiato» commenta uno studente. «Come ha risolto Poletti il problema? Non s’è laureato» polemizza un altro. «Laurearsi con la lode a 28 anni non serve a un fico, detto da Poletti, è la favola della volpe e dell’uva in chiave moderna» ironizza Paolo. «#Poletti, in continuità con illustri predecessori, non perde l’occasione di infamare gli studenti!» rincalza la dose Marcella. Tanti, però, anche quelli che gli danno ragione: «È di moda insultare i potenti di turno, e spesso se lo meritano, ma penso che Poletti abbia detto una cosa oggettivamente vera» dice un altro che lo appoggia.
L’ago della bilancia, secondo il ministro, è soprattutto la questione della spietata concorrenza internazionale. «Perché è meglio laurearsi con 97 a 21 anni? Perché così – ha spiegato Poletti un giovane dimostra che in tre anni ha bruciato tutto e voleva arrivare. In Italia abbiamo un problema gigantesco: è il tempo. I nostri giovani arrivano al mercato del lavoro in gravissimo ritardo. Quasi tutti quelli che incontro mi dicono che si trovano a competere con ragazzi di altre nazioni che hanno sei anni meno di loro e fare la gara con chi ha sei anni di tempo in più diventa durissimo». Ecco quindi l’invito a non cercare tanto la perfezione accademica quanto di darsi da fare per sgomitare. «Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più butta via del tempo che vale molto molto di più di quel mezzo voto. Noi in Italia abbiamo in testa il voto, non serve a niente» ha rincarato la dose. «Il voto è importante solo perché fotografa un piccolo pezzo di quello che siamo; bisogna che rovesciamo radicalmente questo criterio, ci vuole un cambio di cultura».
I nostri ragazzi, insomma, sarebbero ancora legati a un idea di studio e di lavoro che male si sposa con la realtà: il voto di laurea, così come il posto fisso in un posto fisico e la pensione, sono ormai dei miti da sfatare. «La storia secondo cui per 20 anni si studia, per 30 anni si lavora e poi si va in pensione è una storia finita» ha detto. Così come «la storia secondo cui c’è un posto dove si va a lavorare, la fabbrica, è finita. Il lavoro non si fa in un posto: il lavoro è un’attività umana, si fa in mille posti».