la Repubblica, 27 novembre 2015
Ecco come si protegge un Papa che non vuole essere protetto
«Santità, usi la jeep blindata…». Invano nei giorni scorsi, prima del viaggio in Africa, gli uomini della Gendarmeria vaticana hanno provato a convincere Francesco ad ammorbidire la sua nota resistenza a misure di sicurezza più strette. Non è dato conoscere la risposta precisa del Pontefice («non ci penso nemmeno» è quella più probabile). Ma la replica eloquente fornita ai gendarmi, gli “angeli custodi” del Papa, come sono chiamati, è venuta l’altra sera quando, sbarcato in una Nairobi preda di una pioggia incessante, Jorge Bergoglio è salito con passo sicuro sulla solita “papamobile”: aperta ai lati e protetta da un semplice tettuccio che – almeno – gli ha impedito di infradiciarsi il capo. Tutto questo mentre il suo portavoce, padre Lombardi, allargava le braccia e ammetteva: «L’ho visto salire sulla papamobile sotto un diluvio… e poi non l’ho più visto».
Papa Francesco e la sua idiosincrasia per le misure di sicurezza. La questione si sta ponendo con maggiore urgenza dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi, in attesa dell’ultima pericolosa tappa di questo viaggio, nella Repubblica Centrafricana sconvolta dalla guerra civile. Ma a vedere il pontefice argentino nei suoi viaggi all’estero, nelle visite in Italia, per non dire semplicemente alle udienze del mercoledì oppure nei giri in “papamobile” a piazza San Pietro oppure in via della Conciliazione, la preoccupazione è forte per chi lo protegge. Perché Francesco è un Papa recalcitrante a qualsiasi ulteriore restringimento di azione, soprattutto quando vuole avvicinare i fedeli. Figuriamoci indossare qui un giubbotto anti-proiettile. «Se deve succedere – ha detto una volta, fatalista – chiedo al Signore che non faccia male. Non sono coraggioso in questo».
Nell’arduo, complesso, faticoso compito di difendere la figura che rappresenta da sempre uno dei maggiori obiettivi del terrorismo internazionale (basti ricordare la determinazione dei Lupi grigi di Mehmet Ali Agca con Giovanni Paolo II), sono oggi anche in queste tappe tra Kenya, Uganda e Centrafica dieci gendarmi a cui si uniscono due guardie svizzere. Gli uomini che, guidati dal generale Domenico Giani, lo accompagnano ovunque. In borghese, l’auricolare dietro l’orecchio, le giacche foderate di armi non visibili, possono contare sulla loro preparazione estrema, sull’addestramento che ne fa degli 007 non solo nel fisico ma nella testa, e sui collegamenti che a ogni viaggio instaurano con la polizia e la sicurezza locale.
A ogni appuntamento del Papa, che sia l’Africa di questi giorni, o l’America e Cuba del settembre scorso, oppure la Corea e le Filippine dell’anno passato, Giani parte prima in avanscoperta, contatta i suoi colleghi in loco, si informa sui movimenti delle organizzazioni da cui possono provenire minacce, perlustra fisicamente ogni angolo di strada seguendo il percorso che il Papa farà, e quindi torna a Roma per discuterne con i suoi collaboratori.
Gli “angeli” del Papa si affidano molto a San Michele Arcangelo, il loro protettore (anche per loro lassù qualcuno c’è), che festeggiano ogni anno con una bella cerimonia nei giardini vaticani. E giurano la stessa formula (“usque ad sanguinis effusionem”, cioè di proteggere il Santo Padre fino all’effusione del sangue), usata dai porporati.
Sono loro i “bersagli mobili”, cioè le figure che rischiano di più. Per uno stipendio che un gendarme alle prime armi calcola intorno ai 2.500 euro. Hanno ritmi di vita scanditi dagli orari del Papa: in questi giorni africani, per esempio, sono i primi a svegliarsi e gli ultimi a andare a dormire. Se Francesco è solito destarsi alle 4.45 del mattino, i suoi angeli custodi sono in piedi dalle 4. E se il Pontefice si corica alle 9 di sera, loro non vanno sotto le coperte prima delle 10. Provengono quasi tutti da Carabinieri e Guardia di Finanza.
Giani, che è l’uomo costantemente a fianco del Pontefice, è persona dai cento occhi. Fu lui, la notte di Natale del 2009, a saltare sulla svizzera folle che fece cadere Papa Benedetto XVI nella Basilica di San Pietro. Nel lavoro ha modi necessariamente spicci con i fedeli che si intrattengono per più di un selfie con il Papa (ma è anche instancabile nell’allungargli, come avvenuto ieri a Nairobi bambini da accarezzare). Da vicino è persona dai modi squisiti e di forti convinzioni spirituali. Tutti quanti devono sacrificare la famiglia al compito gravoso: la protezione del Papa, che sia ora in Africa o a febbraio in Messico. «A mia moglie – afferma uno di loro – ho detto che anch’io porto la mia croce. E che, prima o poi, spero di andare all’estero con lei: ma in vacanza».