Vanity Fair, 25 novembre 2015
«Ultimamente mi capita di pensare che sono proprio noiosa». Una lunga chiacchierata con Rihanna
Rihanna è seduta di fronte a me nella sala privata del Giorgio Baldi, il suo ristorante preferito di Los Angeles. Ha i capelli rossi e ondulati, il viso senza trucco. Di persona è ancora più bella che in foto. Indossa un top che le scopre l’ombelico, degli shorts di jeans, un paio di Puma e un’ampia vestaglia a stampa cinese. Vedendola ordinare tre mezze porzioni di pasta (spaghetti pomodoro e basilico, gnocchi e ravioli), le chiedo come fa a mantenere un fisico così, sinuoso ma asciutto. E lei: «Questa settimana sono andata in palestra tutti i giorni, perché al cibo non voglio rinunciare. Mentre un’ora per andare in palestra la sacrifico volentieri».
La ventisettenne che ho davanti non è la provocante reginetta hip-hop dalla vita sfrenata, il sex symbol capace, si dice, di provocare risse a bottigliate in discoteca, e nemmeno l’habitué di locali di tendenza come il 1 Oak di Los Angeles e l’Up&Down di New York. Non è nemmeno la donna per cui si usano aggettivi come aggressiva, scandalosa, trasgressiva, dura, immortalata sulle riviste e sui siti di gossip assieme a una serie di presunti fidanzati rapper, attori, atleti. È elegante, spiritosa, diretta, e reagisce con orrore (ma anche con grandi risate) alle dicerie che le riferisco. E anche se il pubblico pensa che la sua vita sia una notte ininterrotta di bagordi, lei dice che non è così. Le chiedo della sua fama di ragazzaccia. «Ultimamente, a dire il vero, mi capita di pensare che sono proprio noiosa», dice. «Quando ho un po’ di tempo per me, guardo la Tv». E a questo punto ci scateniamo tutte e due piangendo la fine di Breaking Bad. Adora Bates Motel e le serie di fiction sulla polizia scientifica.
Di storie inventate Rihanna se ne intende. Malgrado tutti gli amanti che le sono stati attribuiti, dice che il suo ultimo fidanzato ufficiale è stato Chris Brown con il quale, tre anni fa, si era rimessa brevemente insieme dopo che lui, nel 2009, era stato arrestato per averla aggredita.
Prima di lui, c’era stato il giocatore di baseball Matt Kemp. Stavano ancora facendo conoscenza quando i paparazzi li hanno fotografati insieme. «Ci vedevamo solo da tre mesi, e mi piaceva il suo modo di fare, era un bravo ragazzo. I paparazzi ci hanno beccati mentre eravamo in vacanza in Messico. Lui l’ha presa bene, io no. Mi sono sentita molto a disagio. Tuttora, lui non può farsi vedere in giro con un’altra che subito mi tirano in ballo e spuntano titoli di giornale che sostengono che lui mi stia tradendo. E io che nemmeno lo conosco bene. Pensi che di alcuni ragazzi, a volte, non ho nemmeno il numero di telefono. Giuro su Dio che è la verità», dice ridendo.
Ma, visto che la credono così disinibita, non può limitarsi a fare sesso per divertimento? «Potrei, ma io faccio solo quello che mi fa star bene, e che mi va di fare. Mi sembrerebbe una cosa vuota, senza senso. Il giorno dopo starei di merda». «Quando sei innamorata è diverso», prosegue, «e anche se non è proprio vero amore. Se a una persona ci tieni, e sai che quella persona tiene a te, allora sai anche che non ti mancherà di rispetto. E il punto, per me, è sempre il rispetto di me stessa. Certe volte, anche se è la prima volta che vedo una persona, per tutti stiamo già assieme. Questa industria ti rende diffìcili persino le amicizie. Non sono più nemmeno libera di sedermi vicino a uno: ma stiamo scherzando?». E aggiunge: «Però è vero che anche io sono pessima: appena mi accorgo che cominciano a girare dei pettegolezzi, smetto di richiamare i ragazzi. Devo stare molto attenta, con le persone. A quello che dicono, al perché vogliono frequentarmi o venire a letto con me. È una cosa che mi rende molto diffidente, sulla difensiva».
«Mi piacerebbe frequentare uomini che si comportano da uomini, ma ormai hanno tutti paura di farlo», continua Rihanna. «Pensano che comportarsi da uomo sia una cosa da femminucce, che se scosti la sedia dal tavolo per fare accomodare una signora, o anche solo se sei gentile o affettuoso con la tua ragazza davanti agli amici, questo ti renda meno virile. È allucinante. Non si comportano da gentiluomini per non sembrare degli smidollati. Tante ragazze si sono adattate a questa situazione. Io no, e sono anche disposta ad aspettare in eterno, se necessario. Devi rimanere scottata un po’ di volte, prima di capirlo, ma al momento io mi aspetto più di quello che certi uomini sono in grado di dare. Ecco perché ultimamente non faccio più sesso, e non ho nemmeno frequentazioni vere e proprie. Cioè, capita anche a me di essere arrapata. Sono sempre una donna, il sesso mi piace. Ma cosa dovrei fare? Trovare il primo bel ragazzo con cui penso di poter passare una bella nottata e il giorno dopo sentirmi vuota e superficiale? Lui a quel punto avrebbe un bell’aneddoto da raccontare, mentre io sarei lì a chiedermi: “Ma cosa sto facendo?”. La fama c’entra, ma solo in minima parte. Il punto è che sono fatta proprio così. Ed è questo a salvarmi».
Rihanna – all’anagrafe Robyn Rihanna Fenty – è cresciuta a Bridgetown, la capitale dell’isola di Barbados. È cresciuta in una famiglia così unita che la sua pagella scolastica andava mostrata perfino agli zii, e se non era lei a portargliela andavano loro a casa sua per vederla. Tutti sapevano tutto di tutti, anche come andavano i bambini a scuola: i fallimenti non si potevano nascondere, li dovevi affrontare. Lei studiava i libri di testo a memoria (la madre era severissima in fatto di voti) e faceva sport con i fratelli minori Rorrey e Rajad. L’ossessione per la musica risale proprio a quando era bambina: prima il reggae di artisti come Barrington Levy e Beres Hammond, poi Mariah Carey, Céline Dion e Whitney Houston.
La sua carriera è cominciata nel 2004, quando due produttori discografici americani, Evan Rogers e Cari Sturken – entrambi sposati con donne di Barbados – la sentirono cantare a un’audizione, le fecero registrare alcuni demo e poi la portarono negli Stati Uniti, dove andò a vivere assieme a Rogers e alla sua famiglia a Stamford, in Connecticut.
Nel 2005, a 16 anni, fece un provino davanti all’allora presidente della Def Jam Recordings, L.A. Reid. all’amministratore delegato Jay-Z e ai dirigenti Jay Brown e Tyran «Ty-Ty» Smith.
Jay Brown, che oggi fa parte di Roc Nation, la società che cura il management di Rihanna, ricorda che era tutta vestita di bianco, con i capelli pettinati all’indietro. Lei, invece, sostiene di essersi presentata in jeans e stivaletti bianchi e un top aderente turchese, con i capelli ondulati e la riga da una parte, e di avere avuto le sue prime «extension». Mentre aspettava seduta in corridoio, aveva visto passare JayZ, ed era andata talmente nel panico che aveva fatto in modo di non farsi vedere. A sentire Ty-Ty, «quando è entrata e ha cominciato a cantare, a colpirmi è stato il modo in cui mi guardava, e il suo tono di voce. Era serissima».
Ricorda Jay-Z: «Capisci subito se una persona ha quel certo non so che, un’aura da star. È inconfondibile».
«Aveva il fuoco negli occhi», dice Jay Brown. Lei, però, non ne era conscia: «Stiamo parlando di gente che lavorava con i più grandi talenti dell’industria discografica, e io ero giusto un semino venuto da un’isola lontana. Anche solo riuscire a ottenere un’audizione mi sembrava una cosa fuori dalla mia portata. Ero terrorizzata. Mi tremavano le gambe».
Si era già sentita dire di no da un’altra casa discografica, ma alla Def Jam la volevano, e lei, col suo avvocato, rimase nella loro sede per dodici ore, fino alle tre del mattino quando firmò quel che ancora oggi definisce «un ottimo contratto». L’ascesa di Rihanna, dopo, è stata rapidissima. Pon de Replay, un pezzo dancehall ispirato ai suoni caraibici, divenne subito una hit, aprendo la strada a SOS, Umbrella, Rude Boy, Only Girl (in the World), We Found Love, Diamonds e molti altri. Da allora, ha lavorato senza sosta, pubblicando sette album in sette anni, e oggi, a un decennio dal debutto, ha collezionato 54 milioni di album venduti, 13 singoli numero uno in classifica e 210 milioni di download.
Ma il 7 febbraio del 2009, la sera prima dei Grammy e subito dopo il party del produttore Clive Davis, succede una cosa che le cambierà la vita, e alla quale probabilmente rimarrà per sempre associata. L’allora fidanzato, nonché suo primo amore, il cantante R&B Chris Brown, la aggredisce mentre si trovano su una Lamborghini a noleggio lasciandola insanguinata e piena di lividi sul bordo della strada. Le foto del suo viso tumefatto finiscono nelle mani del sito di gossip Tmz per mano di «una donna molto cattiva, per la quale un assegno contava più di qualsiasi principio morale. Gli assegni vincono sempre sulla morale».
Cinque anni dopo, nel 2014, la popstar viene in qualche modo coinvolta nello scandalo Ray Rice, il giocatore di football americano immortalato mentre prendeva a pugni la fidanzata in ascensore: la National Football League e la Cbs decidono di non usare Run This Town, la hit che Rihanna aveva inciso con Jay-Z e Kanye West, prima della partita del giovedì sera. Lei reagisce con rabbia su Twitter e, secondo Jay-Z, «la sua reazione era giustificata. La Nfl temeva fosse un elemento di distrazione, e lei si è chiesta: “Adesso punite me per la faccenda di Rice?”». Le domando se pensa che rimarrà per sempre il simbolo delle vittime di violenze domestiche. «Una cosa che non ho mai capito è perché siano le vittime quelle che vengono punite all’infinito. Ormai quella è una storia che appartiene al passato, e con questo non sto dicendo che bisogna dimenticarla, perché la questione è molto seria e attuale. Molte donne e bambine, ma anche bambini, la stanno vivendo proprio in questo momento. Non è un argomento che si può nascondere sotto il tappeto, e non posso certo liquidarlo dicendo “non è niente”. Ma io, così come le altre vittime, preferisco non doverlo ricordare. Già solo il fatto di parlarne una volta sola – figuriamoci poi se duecento – per chi ha sofferto è una punizione. E questo non mi va giù».
Rihanna abbassa la voce e diventa pensierosa quando spiega il perché abbia poi deciso di rimettersi con Brown e di chiedere al tribunale di annullare l’ordinanza restrittiva che pendeva su di lui. «Ero quel tipo di ragazza che pensa che, per quanto una relazione possa essere dolorosa, ci sono persone più forti delle altre, e che forse una di quelle persone ero proprio io. Finisci per crederti un angelo custode del tuo partner, pensi di dovere restare al suo fianco quando lui non si sente abbastanza forte, quando ha bisogno di un incoraggiamento e di qualcuno che gli dica la cosa giusta».
Quindi lei era convinta di poterlo cambiare? «Al cento per cento. Ero molto protettiva nei suoi confronti. Avevo l’impressione che la gente non lo capisse. Ci metti sempre un po’ a renderti conto che in certe situazioni per loro il vero nemico sei tu. In realtà vuoi solo il loro bene, ma se gli ricordi i loro fallimenti, li fai ripensare ai momenti brutti della loro vita, o anche solo se gli dici che sei disposta ad accettare certe cose, allora perdono il rispetto per te. In realtà, sanno bene che ti stanno facendo del male, e se tu sei la prima ad accettarlo vuol dire che, in fondo, tu stessa pensi di meritartelo. È lì che alla fine ho dovuto ammettere di essere stata stupida a pensare di poter reggere. A volte l’unica cosa che puoi fare è andartene». Oggi, dice, «non provo odio per lui. Gli vorrò sempre bene. Non siamo amici, ma nemmeno nemici. Ora come ora, non abbiamo un vero rapporto». Anche se nel 2012 Rihanna e Brown hanno inciso un duetto dal titolo significativo (Nobody’s Business, «sono solo affari nostri»), le sue collaborazioni più importanti sono state quelle con Jay-Z e Kanye West, oltre a due enormi successi con Eminem, Love the Way You Lie e The Monster. Dice il rapper cresciuto a Detroit: «La considero un’amica. Nel momento del bisogno c’è sempre stata e lavorare con lei mi piace molto. Come artisti abbiamo la stessa etica professionale». Anche per Rihanna «Eminem è una delle mie persone preferite. Ha un sacco di sfaccettature, ed è davvero un bravo ragazzo, concentrato, disciplinato. La sera
resta a casa a fare il padre come si deve, ed è comunque uno dei rapper più importanti della nostra generazione. E anche un poeta di grande talento. È stato un privilegio sentirmi chiedere di partecipare a un suo disco, tanto più che era già stata una fìgata cantare in Love the Way You Lie perché sentivo il testo (che parla di una relazione disfunzionale, ndr) così vicino a quello che io, all’epoca, provavo e non riuscivo a esprimere».
La nostra conversazione sta sconfinando nel giorno successivo, e Giorgio tiene il ristorante aperto solo per lei. Gli argomenti sono i più svariati: le sue poche ore di sonno a notte (tre o quattro), il gruppo affiatato di amiche con cui lavora (l’amica d’infanzia Melissa Forde, il suo braccio destro Jennifer Rosales e la direttrice creativa Ciarra Pardo), la nostra comune passione per il basket in generale e per LeBron James in particolare («in Giappone mi sono svegliata alle sette del mattino per guardare l’ultima partita delle finali Nba», racconta. «Mi è dispiaciuto così tanto vederlo perdere»).
Rihanna vive fra New York, che dice di amare moltissimo, e Los Angeles, dove ha dovuto cercarsi una casa che avesse abbastanza camere da letto per accogliere il suo guardaroba in continua espansione.Tra i capi più fotografati ci sono una pelliccia blu, una verde, una con la linguaccia dei Rolling Stones sulla schiena, una giacca da smoking da portare senza niente sotto, un paio di vaporose ciabatte sfoggiate in pubblico, lo strepitoso abito rosso di Azzedine Alaïa con cui l’abbiamo vista ai Grammy del 2013, quello rosa senza spalline di Giambattista Valli indossato ai Grammy del 2015, il tailleur lavanda Dior usato per la presentazione del servizio di streaming musicale Tidal, e ovviamente il folle abito di satin giallo ricamato e bordato di pelliccia, firmato dalla designer cinese Guo Pei, con cui la scorsa primavera ha rubato la scena al Met Ball, conquistando il giorno dopo la prima pagina del New York Times. Un classico esempio di quanto a Rihanna piaccia mischiare le carte: per ricevere il premio del Council of Fashion Designers of America ha scelto un look semi nudo: un abito interamente composto da Swarovski. «Volevo indossare qualcosa che sembrasse come sospeso sul mio corpo», racconta. «Quella sera è stato l’ultimo exploit: ora ho deciso di prendermi una pausa e di coprirmi di più, altrimenti finisce per diventare tutto troppo scontato».
Lo stesso atteggiamento lo riserva alla musica. Ha inciso di tutto, da splendide ballate come Stay fino all’inno di ispirazione reggae-rock Rude Boy. Il suo nuovo e attesissimo album (il primo da oltre tre anni) ha richiesto un po’ di tempo perché, dice Jay-Z, «lei vuole che sia perfetto». Una delle canzoni che lo comporranno, l’ipnotica American Oxygen, è uscita accompagnata da un toccante video con immagini di Martin Luther King Jr. degli atleti di colore che alzano il pugno alle Olimpiadi del 1968, di John Fitzgerald Kennedy Jr. che saluta per l’ultima volta la bara del padre, di Muhammad Ali, di immigrati, ghetti, lanci di razzi. E poi c’è la svolta totale rappresentata dal singolo, il vendicativo e ironico Bitch Better Have my Money, che parla di emancipazione femminile.
Nell’industria musicale, Rihanna è una potenza. Poco tempo fa ha raggiunto un accordo che la rende proprietaria di tutte le proprie registrazioni originali passate e future, e da ora in avanti pubblicherà la sua musica attraverso l’etichetta di cui è titolare, la Westbury Road. Dice Jay-Z: «Quello che io sono riuscito a ottenere in 15, 20 anni, lei lo ha ottenuto nel giro di 10, e a chi verrà dopo di noi ne serviranno cinque. È bellissimo poter dare un contributo a questa battaglia».
Anche se molti la definiscono una donna «senza paura», Jay-Z preferisce dire «piena di passione». Quello che davvero spaventa Rihanna – a parte «i posti infestati» e il parto (anche se un figlio dice di volerlo «tantissimo... prima o poi») – è il piedistallo che accompagna la celebrità. «Sembra tutto molto scintillante e sfarzoso, ma in realtà è spaventoso, oltre che poco realistico. Quando fingi di non vivere su questo pianeta e resti lontana dalla realtà, sospesa in una bolla protetta dalla fama, rischi di cadere da molto in alto. Mi fa paura, ed è la cosa che temo di più: finire inghiottita da quella bolla. La fama può essere un veleno».
E così, pur essendo più accessibile ai suoi fan (e anche più gentile) di certe star che fingono di esserlo, l’argomento principale nelle conversazioni di tutti i giorni con i suoi amici è fino a che punto la sua potrà essere una vita normale.
Quando le racconto una cosa che mi ha detto Eminem, ovvero che scambierebbe buona parte della sua fama con la possibilità di andare al centro commerciale, lei esclama: «Oddio, si! È inquietante e triste al tempo stesso, lo me lo sogno di notte, davvero, di andare a fare la spesa per conto mio». Addirittura, le dico. «Giuro su Dio. Perché è una cosa vera, normale. Una cosa che ti mantiene un minimo a disagio». A disagio? «Assolutamente. Perché la vita non è perfetta, e appena ti convinci che lo sia, smette di essere reale. Gli artisti firmano un contratto per produrre musica, non per essere perfetti o diventare un modello per gli altri. Anche noi siamo esseri umani imperfetti che imparano, crescono, si evolvono e a cui capitano cose brutte, come a tutti. Ogni tragedia e ogni difficoltà della vita ti mettono alla prova. È come a scuola: fai un esame, lo superi, passi a quello dopo. C’è sempre un altro esame da fare, qualcos’altro da dimostrare».
E avendo superato drammi, relazioni poco sane e prove di vario tipo, a proposito della sua vita privata dice: «Ora sto bene con me stessa, e non mi va di fare entrare nessun altro. Ho troppa carne sul fuoco». Al suo fianco, le dico, ci vorrebbe una persona molto speciale. «Assolutamente», conferma lei. «Quando meno me lo aspetto, arriverà uno straordinario gentiluomo con un sacco di pazienza. Ma non è quello che voglio adesso. Non posso esserci al cento per cento per nessuno. Oggi è questa la mia realtà».
Quindi, concludo, un giorno arriverà qualcuno su un cavallo bianco e...
«No», mi interrompe ridendo. «Non su un cavallo bianco. È molto più probabile su una moto nera».
(traduzione di Matteo Colombo)