Panorama, 26 novembre 2015
Anche i magistrati tengono famiglia
«Familismo amorale»: quando, nel 1954, il politologo Edward Banfield si stabilì in un paesino lucano per studiare l’arretratezza del Meridione, forse non pensava che le sue teorie si sarebbero attagliate all’Italia «in saecula saeculorum». «Massimizzare i vantaggi materiali e immediati della famiglia nucleare» scriveva lo studioso americano. In Italia funziona ovunque così: politica, impresa, burocrazia. E giustizia, oggi come mai «mascariata» da scandali e inchieste che adombrano dilaganti nepotismi.
E così, la scorsa estate, a più di sessant’anni dall’uscita del libro, al telefono con un membro dello staff del presidente della Campania, Vincenzo De Luca, il dirigente sanitario Guglielmo Manna sbruffoneggia: «Io non faccio il direttore generale? Va bene. Però tu non farai il presidente della giunta regionale: io perdo 5, tu perdi 100». Sua moglie, Anna Scognamiglio, giudice del Tribunale di Napoli, ha in mano il destino politico del governatore: su De Luca pende la legge Severino e il rischio di incompatibilità. L’ordinanza arriva il 22 luglio 2015: De Luca resta al suo posto. Mentre Manna, una telefonata dopo l’altra, chiede di diventare direttore generale di un’Asl campana, compenso dell’ ipotetico «pactum sceleris» su cui la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta. Oltre ai coniugi Manna, sono indagati con il reato di corruzione per induzione, anche il governatore e Carmelo Mastursi, suo ex braccio destro. Un groviglio che, lo scorso 12 novembre, ha già portato al trasferimento di Scognamiglio. E all’apertura di un fascicolo del Csm: per valutare «l’incompatibilità ambientale e funzionale» del magistrato.
«I pubblici ufficiali» preconizzava Banfield «useranno le proprie posizioni e le loro particolari competenze come strumenti da usare contro il prossimo per perseguire il proprio vantaggio». Dimostrazione dell’assunto è l’inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia, deflagrata il 9 settembre 2015, poco più di due mesi prima del caso De Luca. Il perno del sistema, che i pm reputano «spregiudicato e familistico», è l’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto.
Dagli atti emergerebbe un lungo catalogo di favori pretesi da amministratori compiacenti. Come l’avvocato Geatano Cappellano Seminara che, incassate parcelle milionarie, avrebbe dato incarichi per 750 mila euro al marito di Saguto, l’ingegnere Lorenzo Caramma. O come l’avvocato Walter Virga, figlio di Tommaso, presidente di sezione del Tribunale di Palermo ed ex membro del Consiglio superiore della magistratura. A Virga junior, è affidata la gestione di un patrimonio di 800 milioni di euro. In cambio, si lamenta al telefono, ha dato lavoro a Mariangela Pantò, nuora della giudice: «Il pizzo che dovevamo pagare». Scrive il Csm: Saguto «ha causato una perdita di prestigio irrimediabile alla categoria». Nelle carte vengono citati anche i suoi colleghi Lorenzo Chiaromonte e Fabio Licata, che hanno già chiesto il trasferimento, e Guglielmo Muntoni, presidente delle Misure di prevenzione in servizio a Roma.
Proprio negli uffici giudiziari capitolini, più di due anni fa, finisce nella bufera un settore attiguo a quello dei sequestri: il Fallimentare. A giugno del 2013 viene arrestata un’ex giudice dal tribunale romano appena trasferita: Chiara Schettini, figlia di Italo, politico Dc ucciso dalle Brigate Rosse nel 1979. Assieme al magistrato, è coinvolto nell’inchiesta il suo ex compagno, con cui ha un figlio: il commercialista Piercarlo Rossi. Per gli investigatori Schettini faceva parte di una cricca specializzata in sentenze e aste pilotate. I soldi, secondo l’accusa, sarebbero transitati su alcuni conti all’estero. Per poi essere reinvestiti, per esempio, in immobili: come quello pagato 370 mila euro in contanti dall’ex compagno del giudice.
I pm hanno ricostruito il patrimonio immobiliare di Schettini: otto case a Roma, una a Parigi, un’altra a Miami, una villa a Fregene e un rifugio a Madonna di Campiglio. Un patrimonio superiore agli 4 milioni e 800 mila euro, scrivono i magistrati nell’ordinanza di arresto. Schettini si è sempre difesa: quelle case sono il frutto di investimenti immobiliari di famiglia.
Le intercettazioni dell’inchiesta restano, comunque, sbalorditive. Come quella in cui il magistrato spiega a uno dei «suoi» curatori: «Di fronte a certi atteggiamenti, io divento più mafiosa dei mafiosi».
Una settantina di chilometri a sud di Roma, un ex collega di Schettini avrebbe usato modi corruttivi e logiche familistiche non dissimili. Il 20 marzo 2015 viene arrestato Antonio Lollo, giudice del Tribunale fallimentare di Latina. Con lui finiscono in manette i presunti complici: la moglie, Antonia Lusena, e la suocera, Angela Lusena Sciarretta, ex dirigente della Questura di Latina. Nelle sue cassette di sicurezza vengono trovati 360 mila euro, a disposizione, secondo i pm, dei coniugi Lollo.
Orologi, gioielli, viaggi e mazzette: questo era il prezzo, ricostruito dalla Procura di Perugia, per aggiustare i fallimenti. «Volevo fare una sorta di tetris con gli smeraldi, gli orecchini e un anello... e un bel bracciale» spiega il giudice al gioielliere di fiducia, mentre sceglie un regalo per la moglie. Acquisti che, per gli investigatori, hanno ripulito il denaro che Lollo riceveva da alcuni commercialisti nominati per gestire fallimenti milionari nella zona di Latina: «Se avessi potuto m’ero già comprato una casa o due» si sfoga con un consulente. Ma non lo posso fare. A chi cazzo le intesto? Però, in qualche maniera, ’sti soldi li devo riciclà». Una parte degli introiti, secondo i pm, e stata investita in orologi di lusso: «Me lo merito un Rolex?» domanda retoricamente a telefono. «Io ho scelto un Daytona»
I pm perugini, in questi mesi, hanno interrogato decine di persone. Che avrebbero fornito altri ragguagli sul «sistema Lollo». In cambio di incarichi, i professionisti si sarebbero disobbligati con lui nelle più svariate maniere: soldi, abbigliamento, perfino il pagamento del bollo auto e delle spese condominiali. I magistrati hanno sentito anche Roberto Amatore, un altro giudice in servizo a Latina. Avrebbe raccontato delle parcelle anomale chieste da Lollo: i suoi consulenti tecnici venivano liquidati con cifre vicine ai 100 mila euro. Mentre, normalmente, l’importo massimo è di 7.100 euro.
Su un altro caso di crack e concordati pilotati, la Cassazione s’è pronunciata il 17 gennaio del 2015. Sebastiano Puliga, giudice fallimentare del tribunale di Firenze dal 1994 al 2002, è stato definitivamente condannato a 6 anni e 2 mesi per falso e bancarotta aggravata. In primo grado, i pm di Genova avevano ottenuto 15 anni. Ma poi la prescrizione aveva cancellato gran parte delle imputazioni iniziali. La «fallimentopoli» fiorentina esplode il 17 ottobre 2002. Le indagini rivelano l’esistenza di un vero e proprio «sistema». I professionisti incaricati da Puliga, spiega la sentenza di primo grado, «ritornavano una parte del corrispettivo al giudice», impegnato in «scalata sociale» grazie alla «strumentalizzazione dell’ufficio». Il tribunale di Genova ha ricostruito lo stile di vita di Puliga e della compagna, Lucia Figini, commercialista e sua sodale: tutti i reati contestati alla donna, però, sono stati prescritti. Fra il 1995 e il 2002, l’ormai ex magistrato avrebbe speso un miliardo e 833 milioni di lire, riuscendo a risparmiare 500 milioni di lire.
Tre settimane fa, il 31 ottobre 2015, è diventata definitiva anche la pena di 4 anni e 5 mesi inflitta all’ex giudice del Tribunale di Reggio Calabria, Vincenzo Giglio. Già ai domiciliari, adesso dovrà scontare in carcere il residuo di pena: un anno e 9 mesi. Giglio è stato condannato per corruzione, rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato al clan della ‘Ndrangheta Valle-Lampada. Il giudice, hanno rivelato le indagini, si sarebbe mosso anche per favorire la carriera della moglie, Alessandra Sarlo, ex commissario dell’Azienda sanitaria provinciale di Vibo Valentia, poi nominata direttore generale del dipartimento Controlli della Regione Calabria.
Ancora sotto processo a Torino è invece Gianfranco Boccalatte, ex presidente del Tribunale di Imperia e di Sanremo, già condannato a 3 anni e 8 mesi nel 2011 per corruzione in atti giudiziari e millantato credito. I capi di imputazione, nel nuovo procedimento, sono peculato, falso e abuso d’ufficio. I magistrati gli contestano diversi episodi: un’asta pilotata per aiutare l’elettricista in cambio di lavori in casa; un misterioso furto di smeraldi, brillanti e zaffiri che appartenevano a un’ereditiera interdetta; un porto d’armi restituito in cambio di una bottiglia di champagne da 500 euro e un computer per la figlia. «Ho solo aiutato persone che avevano bisogno» sostiene l’ex giudice. «Sono stato condannato per il mio altruismo». I magistrati torinesi sostengono il contrario: Boccalatte avrebbe avvantaggiato amici, conoscenti e familiari, trasformando la giustizia in una questione privata. Per perseguire quel «vantaggio personale» di cui scriveva Banfield 61 anni fa. Nel nome dell’inesauribile «familismo amorale» all’italiana.