il manifesto, 26 novembre 2015
Quant’è difficile abortire negli Stati Uniti
Dopo quasi dieci anni di silenzio, la Corte Suprema degli Stati uniti tornerà a discutere dell’aborto. O meglio della miriade di leggi e leggine che in questi anni hanno non solo ostacolato, ma letteralmente tormentato chiunque dovesse, o volesse interrompere la propria gravidanza.
Dal 2010 infatti, quando le elezioni di mid term portarono in dono ai repubblicani la maggioranza in quasi tutti i parlamenti locali, sono state introdotte ben 287 nuove norme.
Si va dall’obbligo a sottoporsi, e guardare, un’ecografia il giorno prima dell’aborto, a quello di sentire il battito di chi non nascerà, ai colloqui con gli “esperti” in sofferenza del feto, fino ai medici che ti spiegano come ciò che stai per fare sia dannoso per la tua salute mentale e aumenti le possibilità di cancro al seno.
Ma anche quando non si arriva a questo livello di malvagità, come nel caso delle leggi texane, arrivate ora alla Corte Suprema, che si limitano a strangolare economicamente, e costringere alla chiusura i già pochi centri medici dove si può abortire, il risultato non cambia.
Perché i 9 giudici nei prossimi mesi (la sentenza ci sarà a giugno) si troveranno a dover affrontare il paradosso di un paese in cui interrompere la propria gravidanza è legale. Ma proibito.
A differenza di tante altre sentenze della Corte Suprema, infatti, Roe versus Wade, in questi quarant’anni trascorsi dal 1973, non ha portato la pace, ma la guerra.
Quella vera, negli anni ’80, quando quasi ogni settimana le bombe esplodevano davanti, o dentro, le cliniche e le sparatorie uccidevano i medici o i giudici colpevoli di aiutare le donne a abortire.
E, anche se in modo per fortuna meno cruento, nei decenni successivi le cose non sono andate poi molto meglio.
I due fronti, come racconta la serie storica dei sondaggi Gallupp, sono rimasti compatti e contrapposti, anzi nel 2012 chi si dichiarava pro life è diventato maggioranza. Anche se solo di un punto in percentuale.
Poi per l’appunto la parola è passata nelle mani dei parlamenti locali, perché grande è il potere degli stati nella patria del federalismo, e di chi ne aveva conquistato la maggioranza, i repubblicani. Fino a trasformare il paradosso in un tabù. Le donne americane hanno continuato infatti a interrompere le proprie gravidanze: una su tre, dicono le statistiche, passa per questa strada impervia almeno una volta nella sua vita. Ma nel silenzio, lo stigma è diventato sempre più pesante.
Tanto che, persino se ora la Corte bocciasse le leggi del Texas, e non è affatto scontato, portando quasi automaticamente alla cancellazione della gran parte delle altre leggi statali, sarebbe solo un primo piccolo passo. Come racconta la storia di #Shoutyourabortion, letteralmente «grida il tuo aborto», l’hashtag di twitter lanciato a fine settembre da Lindy West.
Trentenne di Seattle, ben nota a tutte le lettrici di Jezabel, uno dei più diffusi siti delle giovani femministe americane, Lindy si era messa al computer una mattina, aveva scorso i blog delle amiche ed era sobbalzata. Perché, anche lei come aveva appena scritto Amelia Bonow, aveva realizzato di aver nascosto, persino a se stessa, la sua esperienza. «Vivo in una città progressista, in un ambiente, e una famiglia schieratamente pro choice, di mestiere scrivo della mia vita eppure…Io non parlo mai, mai, del mio aborto». Avvenuto cinque anni prima, e per sua fortuna non traumatico, visto che aveva usato la pillola del giorno dopo e tutto era andato bene. Ma per l’appunto non l’aveva mai detto a nessuno, nemmeno alle amiche del cuore, né sapeva se qualcuna di loro ci fosse passata. Così è nato shoutyourabortion, perché, dice Lindy «l’aborto è un esperienza comune, succede e ed è qualcosa che devi poter dire ad alta voce».
La risposta è stata immediata. 150mila post in pochi giorni e quasi altrettante storie personali. C’è chi ha ricordato il suo terrore, quando si era scoperta incinta a quindici anni, chi era stata spinta a farlo perché il futuro padre, un uomo violento, avrebbe messo in pericolo lei e ciò che portava in grembo.
Ma forse la storia più semplice e vera è quella di una donna già madre, con un figlio di quattro anni, che sapeva bene come la sua famiglia, economicamente ed emotivamente, non sarebbe stata in grado in quel momento di accogliere un altro bambino.
Ma accanto a tante reazioni di sollievo, di chi sentiva di poter finalmente aprire quella porta, sono arrivate ovviamente anche una valanga di proteste, o più semplicemente di insulti. E nonostante Amelia, intervistata dal New York Times, avesse spiegato come quello shout, «non vuole essere una celebrazione o un giudizio, è solo l’opposto del silenzio o dei sussurri», c’è chi ha scritto «È come se Hitler celebrasse il suo genocidio», o più semplicemente «Siete delle assassine di bambini». «La realtà è che per troppo tempo c’è stato questo stigma – come dice Kate Cockrill, direttrice di Sea change, associazione creata proprio per combattere il tabù – Ed è anche colpa nostra, perché ci siamo concentrate sempre e praticamente solo sulla battaglia contro le singole leggi. Mentre ciò che serve è una strategia per un vero cambiamento culturale».
Ma qui la strada è ancora davvero lunga, sia per le femministe americane, troppo spesso in passato accanite abortiste, che per chi condanna le donne senza guardare alle loro vite.