Il Messaggero, 26 novembre 2015
La storia «der Giubbileo» raccontata da Gigi Proietti
«Quando papa Francesco ha indetto un Giubileo mi è venuto in mente il mio Giubileo. Anzi, Giubbileo con due b. È il nome (o meglio il soprannome) del protagonista di una storia che si svolge in quella che viene definita la “Città Invisibile”.La città dei barboni e degli homeless. È molto teatrale, l’ho pensata per la messa inscena, ma forse si può anche raccontare. Ve la racconto?»
Tutti i giovani attori e attrici che sono attorno a me mi pregano di farlo: sono curiosissimi.
«Quest’idea mi precipitò addosso all’improvviso qualche anno prima del Giubileo del 2000. Mi spaccò la testa e me la riempì delle immagini e dei suoni di un mondo che non si conosce e che non ha nessuna voglia di conoscere se stesso, la Città Invisibile, perché nessuno la vuole vedere... ma siete sicuri di volerla ascoltare?»
Tutti: «Dài, racconta!».
«Ok.»
È buio. Nell’aria, in alto, magicamente appaiono le note gialle di un famosissimo tema disneyano... I sogni son desideri... la voce che lo intona, fuori scena, è bianca, tesa, come quella del pastorello pucciniano (Tosca) capitato lì per caso. Nella strada, silhouettes di figure si muovono rapide nel buio, dando l’impressione di una violenza terribile. Bastoni, luccichii di lame, calci e urla di dolore dell’uomo aggredito si mixano stridenti alla voce infantile che va avanti per nulla turbata... chiusi in fondo al cuor... urlo... nel sogno ti sembran veri... urlo più lancinante. L’uomo aggredito cade. Si accendono torce. Si intuisce che vogliono dargli fuoco. Sghignazzano con voci soffiate, concitate. Ma, improvviso, un acquazzone spegne tutto, anche la foga omicida degli aggressori che fuggono.
La vocina si allontana come nel tempo... non giunga la felicità non disperar... in assolvenza un chiarore viene su e ci consente di vedere un mucchio di stracci rimasti a terra, fumanti, sotto le ultime goccioline ritardatarie. Il canto è svanito. L’atmosfera è quella tipica del dopo-temporale. Ferma. Rumori lontanissimi, ovattati. Sbuca, non si sa bene da dove, forse dalle crepe di qualche monumento, un uomo, un barbone. Ha due grossi baffi neri che ricadono ai lati della bocca. Di solito indossa una camicia bianca e una strana giacca nera, sembra un vecchio frac.
Si chiama Silvestro, come il gatto dei cartoon.Lo segue uno strano personaggio. È un giornalista vestito secondo un’ineffabile interpretazione personale del suo mestiere. Pantaloni anni Cinquanta larghi, beige, punto vita ad altezza del torace, giacca a quadrettoni e, ciliegina, papillon giallo e bianco floscio.Sta cercando di mettere insieme un servizio per la Rai, facendo interviste in quel mondo che definisce misero, povero, degradato, e dà queste definizioni quasi piangendo in empiti e improvvisi scoppi di pietas, al punto che sono gli stessi barboni che, impietositi, a tratti cercano di tirarlo su con pacche sulle spalle: «Coraggio, Piagnò».
Così lo chiamano: Er Piagnone.
«È morto?» domanda Er Piagnone tra le lacrime fatte di pioggia, indicando il mucchio di stracci.«No, tranquillo» risponde Silvestro. «Chillo dice che non può morire. È come nu’ cartone animato. Spesso je menano perché ha un progetto. Chi ha un progetto in questo Paese commette quasi nu’ reato. Lui vuole organizzare qui in città un grande raduno dei rappresentanti di tutti i barboni del mondo: Clochard, Vagabundos, Drop Out. E vuole celebrare l’evento con una Sacra Rappresentazione, da compiere in strada durante il Giubileo. Per questo lo chiamano Giubbileo. Dice di conoscere le lingue...»
«Yes, I do» dice una voce soffocata e dolente da sotto gli stracci.
È vivo!
Interrompo il racconto perché bussano alla porta.
Tutti: «Eh no, un momento! Continua, per favore...».
Dalla porta fa capolino Loretta, mia sarta da sempre.....
...
Ah, dimenticavo. Sono nel camerino di un vecchio teatro di Roma, in attesa che inizi lo spettacolo. Si va sempre molto presto in teatro (non tutti lo fanno, a dire la verità). Alcuni, più seri di me, si chiudono per concentrarsi. Io, lo confesso, amo fare di tutto: scrivere, disegnare, spettegolare... a volte suonare la chitarra. Ma raccontare o sentire racconti è ciò che preferisco. Il camerino, specie in tournée, è un luogo di cui solo chi fa l’attore conosce le peculiarità. Può essere tutto: sala di lettura, di studio, di musica, di incontri di lavoro... può diventare perfino alcova... ehm. Mi guardo un po’ allo specchio e non posso fare a meno di sorridere per una vecchia scritta sul muro lì accanto: «Si preca di non rimanere oggeti de valore nel cammerino».
Un capolavoro! Mi sono raccomandato di non cancellarla. Cerco di immaginarmi il volto di chi l’ha scritta, sono sicuro che avesse grossi baffi rossi e fosse un po’ claudicante. Chissà perché. Penso alle scritte sui muri di Roma. Sono forse fra le poche cose rimaste a ricordarci lo spirito di un popolo che, ahimè, sta perdendo pian piano la sua proverbiale ironia. Violente, volgari, a volte tenere, geniali.
...
Come rimanere seri leggendo: «È tanto brutto che la madre lo chiama bello de zia»? A volte si sfiora il blasfemo: «Dio c’è». E sotto: «O ce fa». Geniale!
C’è una vecchia scritta a San Lorenzo, esisteva già ai tempi dei figli dei fiori: «Se avessi le ali volerei». E sotto hanno aggiunto: «E grazie al cazzo».
Me ne ricordo un’altra in un ascensore: «Se preca de chiute». Mentre in un ristorante, che forse voleva far sapere che lì si mangiava pesce cucinato come a casa, c’era un cartello: «Cucina marinareccia». Formidabile crasi fra marinara e casareccia...
Me ne ricordo un’altra: «Con mia madre tutto bene». Firmato dottor Freud.
Gigi Proietti
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La città invisibile, i teatri, le frasi sui palazzi di Roma, la realtà e la finzione dell’umana esistenza: nel nuovo libro di Gigi Proietti “Decamerino” (Rizzoli) novelle, sonetti, ricordi, pensieri e manie nati dietro il sipario. Un lungo racconto che comincia proprio con l’Anno Santo quando un barbone viene aggredito con il fuoco ma un temporale salvifico spegne le fiamme e arrivano Er Piagnone e Silvestro