Corriere della Sera, 26 novembre 2015
C’è qualcosa di sbagliato nella ricetta del “Più grande pasticcere”
Arrivati alla seconda stagione del talent “Il più grande pasticcere”, le domande sono rimaste le stesse dell’anno scorso: perché la Rai sceglie di realizzare un programma copia carbone di altri talent show culinari già consolidati, inseguendo canali come Real Time e SkyUno? Ma soprattutto, perché l’imitazione del Servizio Pubblico è peggiore dei precedenti realizzati dai canali digitali?
Come noto, la trasmissione è l’adattamento di un format francese, “Qui sera le prochain grand pâtissier?”, e questo in sé non è certo un problema. Il problema è che, come in pasticceria, anche in televisione la presentazione è importante: i maestri pasticceri insistono perché i concorrenti curino ogni dettaglio, ma la confezione del programma evidenzia non pochi limiti (Rai2, martedì, 21.20). In questa seconda edizione si è scelto di rinunciare alla presenza della conduttrice (anche perché Caterina Balivo è passata al comando di “Monte Bianco"), per andare incontro alle tendenze più recenti e raffinate di programmi come “Masterchef”, che delegano la costruzione del racconto alla voce fuori campo e al montaggio. Elementi che in questo caso non riescono a dettare un ritmo e una tensione narrativa adeguati.
Il limite maggiore però è un altro: questi show funzionano quando si crea una riuscita alchimia tra giudici dalla forte personalità, originale o “studiata” dal lavoro degli autori, e concorrenti che possono trasformarsi in personaggi con una storia da raccontare, che assumono dei ruoli narrativi all’interno delle varie fasi del gioco. Tutto questo nel “Più grande pasticcere” non succede, anche perché i giudici Luigi Biasetto, Roberto Rinaldini, Leonardo Di Carlo e Iginio Massari, maestri nella loro professione, hanno uno scarso physique du rôle televisivo. Peccato insistere su questa strada, anche perché Rai2 ha mostrato di saper fare molto meglio nel campo dell’intrattenimento (vedi il caso di “Pechino Express").