Corriere della Sera, 26 novembre 2015
Le ballate del maledetto Villon si amalgamano alle geometrie di Morellet in un libro edito da Colophon
Rivive la leggenda di François Villon (1431 – morto dopo il 1463). Sono appena uscite Cinque ballate, con altrettanti collage di François Morellet (1926), tradotte da Marina Giaveri (Colophon, formato 34 x 48 cm, pagine 34). Che cosa hanno in comune i versi del «poeta-malfattore» e i lavori di un pittore astratto che ama le opere suprematiste di Kazimir Malevich (1879-1935), tanto da essere stato accostato, a Parigi, all’artista russo, nelle mostre storiche del 1977 e del 2011 (lo stesso anno della retrospettiva al Centre Pompidou)?
Probabilmente soltanto l’innovazione dei rispettivi linguaggi, non certo per un qualsiasi confronto biografico. Infatti l’unico paragone possibile fra Villon – nato lo stesso anno in cui, a Rouen, Giovanna d’Arco saliva sul rogo – e un pittore è quello con Caravaggio, anche se separati da oltre un secolo di distanza. Entrambi, per esempio – scapestrati, irrequieti, vagabondi, rissosi, dissoluti, ribelli, ma geni —, muoiono piuttosto giovani. Entrambi vengono accusati di omicidio e, condannati a morte, devono fuggire per non essere impiccati. Entrambi hanno avuto una grandissima influenza su poesia e pittura. Il primo, soprattutto con le sue ballate dove utilizza il gergo della malavita; il secondo, con la sua visione analitica di uomini e cose e l’uso drammatico della luce.
Anche Morellet (sotto: uno dei suoi collage), per suo conto, ha rivoluzionato il linguaggio pittorico, passando dai primi dipinti figurativi a quelli geometrico-visual, sulla scia del costruttivismo e del neoplasticismo.
François Villon ha scritto undici ballate, lontane dalla tradizione medievale e dalla retorica del tempo. Adesso ne vengono pubblicate cinque: Ballata delle contraddizioni o del Concorso di Blois («Muoio di sete presso la fontana, / caldo qual fuoco, tremo e batto i denti; / nel mio paese sto in terra lontana»), Ballata delle dame del tempo che fu («Ditemelo, dov’è, in quale paese / è Flora la bella romana, / dov’è Archipiade e dov’è Taide che / a lei fu cugina germana?»), Ballata dei signori del tempo che fu («E allora, dov’è il terzo Calisto, / ultimo estinto di quel nome, / per quattro anni sul papalisto? / Alfonso, sire d’Aragona, / Sua Grazia il duca di Borbone, / e Arturo duca di Bretagna, / e Carlo settimo il Buono? / Ma dov’è il prode Carlomagno?»), Ballate delle Parigine («Siano pur dette eloquenti / Fiorentine, Veneziane, / tali da far le mezzane, / sian Romane o pur Lombarde, / Genovesi – e che litigi – / Piemontesi, Savoiarde, / lingua pronta è di Parigi»), Ballata degli impiccati (Epitaffio di Villon) («Fratelli umani che oltre noi vivrete, / contro di noi non indurite il cuore, / che, se pietà di noi miseri avrete, / pietà di voi più presto avrà il Signore»), probabilmente quella più tradotta e citata al mondo.
Villon ha sempre ispirato centinaia di autori. In letteratura (Rabelais, Hugo, Rimbaud, Baudelaire, Verlaine, De Nerval, Tzara, Pound, Madelstam), musica (Debussy e cantautori come Brassens, Dylan, Reggiani, De André), teatro (Brecht, McCarthy). Non altrettanto è avvenuto nell’arte. Pochi gli esempi: La belle Heaulmière di Rodin, il Villon di Paul Langevin e l’Hommage à Villon di Nonda (Epaninonda Papadopoulos) voluto da André Malraux.
Per i cinque collage, Morellet s’è ispirato ai suoi primi dipinti geometrici dopo la scoperta di Mondrian, Theo van Doesburg e De Stijl. Così abbandona il colore, risolvendo ogni cosa in un grigio sfumato. La poesia acquista una sorta di «struttura» semantica che, alla fine, riesce ad amalgamarsi con la geometria dell’opera. Un connubio perfetto.