la Repubblica, 26 novembre 2015
Peppino di Capri ha deciso di fare il cattivo (al cinema)
La giornata uggiosa a Napoli non smorza l’umore di Peppino di Capri che si racconta senza rete in un bar sul lungomare. 76 anni di età e 57 di carriera, il cantante si lancia come attore nella commedia Natale col boss, duetta con Gué Pequeno in un rap ispirato a Champagne e debutta in una web serie. «Lillo e Greg hanno avuto l’idea dell’errore di due chirurghi che invece di rifare la faccia al boss come quella di Leonardo DiCaprio lo trasformano in Peppino di Capri. Aurelio De Laurentiis un giorno mi convoca all’Hotel Vesuvio, pensavo volesse qualche consiglio sui giocatori del Napoli e invece mi propone il film. “Dai, firmiamo”. Io “Ma me lo fai leggere il contratto?”. “Ma dai, tra amici ci mettiamo a perdere tempo, c’è la partita tra mezzora”».
Com’è andata sul set?
«I colleghi mi hanno gasato e mi sono lasciato andare. In una scena in macchina io e il boss con la mia faccia ci incontriamo: recitare tutte e due le parti non è mica facile. Perché il boss ci prende gusto e vuole diventare davvero Peppino di Capri. Per recitarlo ho tirato fuori la voce da boss che uso nelle barzellette».
Suo figlio Dario fa l’attore, le ha dato consigli?
«Mi ha detto: “Papà ti devi far rispettare, ti devono mandare la macchina sotto casa”. A me pareva brutto, volevo farmi trovare alla stazione».
Chi glielo ha fatto fare?
«Di certo non i soldi. Conoscete Aurelio, tiene il braccino corto, “Chiedi cifre che neanche a Hollywood…”, “Aurelio, dammi quello che vuoi”».
Ha partecipato a molti film.
«Solo come cantante. Usavano i miei brani, nel Sorpasso ce ne sono sette. Da attore ho recitato con Arena in Maurizio, Peppino e le indossatrici. Un filmaccio che passano i canali privati».
Che cinema le piace?
«Film d’azione. Il cinema italiano di oggi è diverso da quello che ho vissuto io, ai tempi di La dolce vita ero nei locali, quando il film veniva girato. La mia prima donna recitava in quel film, Nico dei Velvet Underground. Avevo 16 anni e suonavo a Capri, lei il giorno dopo mandava fiori a casa mia. E mia madre: “Ma che vuole questa?”. I miei idoli sono stati Robert DeNiro e Eduardo De Filippo. Eduardo l’ho incontrato all’Hotel de Londres. Leggeva il giornale in poltrona. Mi fa: “guagliò, arapete nu ristorante”. Resto interdetto: non gli piace come canto? Dopo un po’ aggiunge: “La gente dovrà mangiare sempre”. Sei anni dopo, stessa scena: senza alzare lo sguardo mi dice “Te sei araputo ’o ristorante?”.
A quattro anni si esibiva per l’esercito americano.
«Mio zio mi portò a suonare per il generale Clark, certe canzoncine americane che avevo imparato alla radio. Sul piano c’era un piatto d’argento, a fine serata era pieno di AM-lire, a casa svuotavo le tasche e crollavo. L’emozione più grande, alla Carnegie Hall di New York, nel ’61. La sera andammo in un locale ad Harlem, 11 bianchi, lo speaker ci fece fare l’applauso. Entrando un tizio disse: “Who is this monkie?”: ero secco secco, con gli occhialoni...».
Ha suonato prima dei concerti dei Beatles.
«Guardavo i loro amplificatori giganti e pensavo che fossero armadi. Hanno smosso il mercato, ma noi abbiamo esagerato: dal giorno dopo tutti con le chitarre e i capelli lunghi».
E lei è entrato in crisi.
«Non mi chiamava più nessuno. Ci facemmo prestare tre chitarre elettriche. Mi ritrovai sul palco a cantare She loves you. Poi la sera mi guardavo allo specchio: ma che stai facendo? Sono tornato alla mia musica, ho calato i prezzi. Qualche collega accettava due lire pur di rubarti una piazza».
Anche lei ha lanciato la sua moda: la giacca di lamè.
«Vivevo a Capri, coccolato da grandi stilisti. Mi sono messo la giacca di lamé, la gente impazzì. Mi feci arrivare dalla Cina una stoffa con alberi e uccelli per una giacca su misura: me la rubarono a Maranello a fine serata. La poggio su una sedia, firmo un autografo, mi giro e non c’è più. Ogni tanto la rivedo su qualche foto. Vorrei mettere un annuncio su Internet...».
Tanti italiani si sono innamorati con le sue canzoni.
«Negli ultimi anni è più la gente che mi minaccia, “mannaggia a te”, che chi mi ringrazia».
Ha fatto quindici Sanremo e ne ha vinti due.
«Ci andrei in eterno: in una sera becchi 15 milioni di spettatori. Ora puntano sui giovani, ma troppi sono costruiti a tavolino. Mi piace Tiziano Ferro, timbrica vocale inconfondibile. Non amo la generazione che “pausineggia”, pallide imitazioni della caposcuola».
Il suo Sanremo migliore?
«L’anno di Il sognatore. Mi arrivò un telegramma di Dalla: “Stupenda esibizione”. Mi ero illuso di arrivare tra i primi, non fu così, non so se per qualche inghippo. Ora ho un brano meraviglioso: la mia 500ª canzone».
Andrebbe in concorso?
«Ogni anno mi chiedono una canzone, io ci casco, poi non se ne fa niente. Conti l’ultima volta ha detto “è una canzone alla Peppino di Capri”. E che volevi, un rap? Ora vorrei solo un premio alla carriera: 5 minuti sul palco, una canzone, un grazie al pubblico e via. Mi rifiuto di fare l’Al Bano della situazione, che vive per apparire. Gli ho detto “non ti tingere più i capelli, fai schifo”. E lui “Sei pazzo, io giro per i paesi in cui devi avere i capelli corvini”».
Cosa le piacerebbe?
«Le pare normale che non abbia mai avuto un sabato sera mio, magari con ospiti Mariah Carey e Lady Gaga?».
Cosa pensa dei talent show?
«Soffro per gli esclusi. So che significa pensare di cambiare mestiere».
Lei non lo ha fatto.
«Dopo la crisi post Beatles, con le ultime 250 mila lire aprii la mia etichetta. Era il 1970. Il primo 33 giri vendette 20 mila copie. Mi comprai una Mercedes coupé. Anni dopo la ritrovo in un garage e la ricompro. La porto da un carrozziere ad Agnano e scordo l’indirizzo. Sono passati dieci anni. Il carrozziere era un vecchietto, sarà morto».
Una vita piena di ricordi.
«Vivo il presente, un po’ il futuro. Mi piace la tecnologia, seguo i miei figli».
Uno fa l’attore. Gli altri due?
«Uno è musicista, gira il mondo con le cover degli U2: non sa quanto mi costa di attrezzatura, tutto quello che ha The Edge lo deve avere anche lui. Ma è bravo».
Il terzo?
«Vaga, da un baretto a Palma di Maiorca ai led di una fabbrica in Montenegro. Igor, il figlio di Roberta, la mia prima moglie, ogni tanto mi dice “ho avuto un’idea”, e io tremo. La mamma era così, mi faceva cambiare continuamente i mobili. E lui è uguale a sua madre».