la Repubblica, 26 novembre 2015
Philip K. Dick aveva scritto un diario allucinato prima di morire. Ora è stato pubblicato
«Bisogna superare la falsa idea che un’allucinazione sia una faccenda privata». Il 20 febbraio del 1974, lo scrittore Philip K. Dick, dopo quattro matrimoni falliti, la pubblicazione di una trentina di opere che lo consacreranno presto come un maestro della letteratura nordamericana, e un consumo di droghe non quantificabile, si recò in un centro odontoiatrico per farsi estrarre due denti del giudizio. Qualcosa non funzionò con l’anestesia a base di sodio penthotal che il dentista gli aveva praticato, perché già nel pomeriggio Dick era in preda a dolori lancinanti. Così Tessa (la quinta moglie) telefonò al dentista per un analgesico. Poco più tardi, giunse l’addetto alle consegne della farmacia. Andò ad aprire lo scrittore. L’addetto era una ragazza bruna che portava al collo una catenina d’oro con un ciondolo raffigurante un pesce. Alla domanda su cosa rappresentasse quel pesce, la ragazza rispose che era un simbolo usato dalle prime comunità cristiane. Proprio in quel momento, Dick vide partire dal ciondolo un raggio di luce che lo investì provocandogli ciò che in omaggio alla filosofia platonica chiamerà anamnesi, vale a dire la rievocazione di tutta la summa del sapere: «ricordai chi ero e dove mi trovavo. In un batter d’occhio, in un istante, tutto ritornò in me». Dick ebbe insomma una visione mistica. Il velo dell’apparenza gli sembrò caduto e con esso l’ostacolo che ci impedisce di vedere il mondo per come è davvero. Un’esperienza al di là del linguaggio, che da bravo scrittore si ripropose di trascinare subito da quest’altra parte, in modo da renderla comunicabile. Si dedicò all’impresa negli otto anni che gli restavano da vivere, a colpi di narrativa (la trilogia di Valis affronta proprio questi temi), nonché attraverso l’insonne, forsennata, maniacale scrittura di uno zibaldone che arrivò a toccare le 8.000 pagine, una raccolta di considerazioni, teorie, aforismi, missive con cui Dick cercò di spiegare e di spiegarsi cosa gli era successo, e che chiamò significativamente L’Esegesi. Rimesso in ordine da Pamela Jackson e Jonathan Lethem, il testo è stato appena pubblicato in Italia da Fanucci con la traduzione di Maurizio Nati. 2- 3-74: così Dick battezzò i sorprendenti eventi da cui si sentì invaso per tutto il febbraio e il marzo di quell’anno. Una notte, fu tempestato dalla visione di migliaia «di disegni astratti in forma perfetta» che potevano ricordare Kandinskij. Sentì voci inquietanti provenire dalla radio. Una forma di energia “plasmatica” color rosa lo informò che suo figlio Chris correva un pericolo mortale. Dick portò il piccolo dal medico, e sorprendentemente a Chris fu diagnosticata un’ernia inguinale da operare all’istante. Poiché siamo nel 1974 (la paranoia regnava sovrana, il 7 aprile uscì La conversazione di Coppola, ad agosto Nixon si sarebbe dimesso) e il luogo è la California post psichedelica rievocata di recente da Paul Thomas Anderson nel bellissimo film Vizio di forma tratto da Pynchon, non esisteva speculazione politica, religiosa o esistenziale sufficientemente strana da suonare inverosimile. Poteva così capitare che il giovane Art Spiegelman andasse a omaggiare lo scrittore del romanzo da cui verrà tratto Blade Runner, trovandosi davanti un uomo che studiava l’aramaico in un appartamento che sembrava «la versione peggiorata della casa di Philip Marlowe» e gli parlava di come la Terra fosse intrappolata in una «prigione di ferro nera» che impediva alla luce di Dio di arrivare fino a noi. Perché è questo il succo della rivelazione di Dick, su cui nell’Esegesi non fa che riflettere. L’umanità sarebbe una minuscola parte di un macro-organismo simile a un «sistema di intelligenza artificiale autoriparante», di cui noi rappresenteremmo disgraziatamente una sottosezione «caduta sotto il livello di trasferimento dei messaggi», una «bobina di memoria malfunzionante: addormentati, e in un quasi sogno, noi non siamo dove (e quando?) crediamo di essere». Secondo Dick percepiremmo insomma a stento una realtà che – se solo si riuscisse a riparare il guasto di ricezione – ci libererebbe da un maligno giogo millenario, restituendoci all’originaria condizione di pace, felicità e concordia universale. Si tratta di una posizione che gioca di sponda con lo gnosticismo cristiano dell’antichità, per come almeno poteva rielaborarlo un geniale autodidatta che si documentava sull’Enciclopedia Britannica e immaginava che nell’America del XX secolo il Deus absconditus potesse annidarsi anche in una bomboletta spray. Siamo in pieno Matrix con decenni di anticipo, e sono gli argomenti di cui Dick parlò davanti allo sbigottito pubblico del festival di fantascienza di Metz nel 1977, quando affermò che i suoi romanzi erano in un certo senso “veri”. Ma ne L’Esegesi c’è molto più di quanto potrebbe mostrarvi un film sulla “matrice” che durasse due giorni anziché due ore. Leggendolo, potrete pensare che il suo autore sia un fanatico a cui le droghe hanno fatto brutti scherzi, ma è lui per primo a farsi venire il dubbio («non vorrei fosse un flashback da acido») e gioca di continuo a confutarsi con un’autoironia che nessun integralista avrebbe, fino a farsi addirittura venire la paranoia che la stessa Esegesi sia un complotto psichico ordito a sua insaputa per allontanarlo dalla visione! Vi verrà in mente che siamo di fronte a una mente prodigiosa che usa religione e letteratura come schemi narrativi per cingere d’assedio i misteri della fisica contemporanea. Collegherete il furore mistico di Dick a quell’epilessia del lobo temporale di cui si dice soffrissero anche personaggi come Van Gogh e Teresa d’Avila. O forse, più serenamente, prenderete le pagine de L’Esegesi come un’occasione per trascorrere molte ore in una delle menti più straordinarie della letteratura dell’ultimo mezzo secolo, un viaggio in un labirinto le cui pareti ruotano di continuo su se stesse rendendo inutile qualunque filo di Arianna, cambiando il disegno complessivo ma non il messaggio di fondo: la certezza che un mondo migliore di quello in cui viviamo sia la nostra missione di specie.