IL - Il Sole 24 Ore, 24 novembre 2015
Nessuno può fermare Taylor Swift e la sua musica
«The power of Taylor Swift». «Taylor Swift is the music industry». Forse sono state quelle parole su quelle due copertine (rispettivamente Time e Bloomberg Businessweek, entrambe di novembre 2014) a cambiare tutto.
Forse è stato da quel momento che il mondo ha iniziato a prendere definitivamente sul serio la bionda cantautrice di Reading, Pennsylvania, da tutti però collocata a Nashville: la Violetta del country con le sue ballate melense per ragazzini delle medie, l’ennesima America’s sweetheart che sì, non sembra un’altra one hit wonder, ha già venduto 50 milioni di dischi, ma insomma, presto ce ne saremmo tutti dimenticati.
Poi – prima di quelle due parole così granitiche, così inesorabili, così adulte: il Potere, l’Industria – è arrivato 1989, album titolato come il suo anno di nascita. Negli Stati Uniti ha venduto un milione e 200mila copie in una settimana, a oggi una quindicina nel mondo: uno sproposito, considerato che al momento il mercato dei dischi fattura quanto quello delle giarrettiere da uomo. Sono piovuti singoli di successo (Shake It Off, Blank Space, Bad Blood), si è generata attorno alla signorina una lobby influente spalmata su tutto il jet-set che piace alla gente che piace (le amiche famose, e tutte del cuore, e tutte nel video di Bad Blood, sono Cara Delevingne, Lena Dunham, Selena Gomez: capofila di una lista prossima all’infinito), si è stabilito un culto che dalle preadolescenti è arrivato agli intellettuali, quelli con la fregola di saltare sul carro del vincitore e quelli che semplicemente dovevano essere dalla parte della Giovanna d’Arco che cambiava tutto, nel momento in cui tutto stava già cambiando. Persino Ryan Adams si è messo a rifare i suoi pezzi. Anzi, tutto 1989, che nelle mani dell’idolo indie-colto è diventato una sorta di Grande Romanzo Americano con echi di Bruce Springsteen – sì, è tutto vero.
Due sono state le battaglie principali della Marianna d’America, ci vorrebbe un Paolo Uccello a immortalarle su tela e farle passare alla Storia, ché i blog si autodistruggono di giorno in giorno. La prima: la scelta di non pubblicare 1989 (e di levare tutta la sua discografia precedente) su Spotify, baluardo dello streaming a costo quasi zero: «Va attribuito valore a quello che i musicisti hanno creato», motivava Swift nell’intervista a Time. La seconda: la lettera inviata attraverso il suo Tumblr personale a Apple Music. «Nel cuore della notte, mi sono dovuta alzare e scriverla di getto. L’ho letta a mia madre prima di postarla, ero terrorizzata dalle possibili conseguenze» (Vanity Fair Usa, settembre 2015): «[Nei tre mesi di prova gratuita del servizio] gli autori, i produttori e gli artisti non saranno pagati. È amareggiante», faceva sapere agli uomini grigi della Mela.
«Taylor Swift ha salvato l’industria discografica», ha commentato il solito Time, ormai quasi un house organ. Gli effetti sarebbero potuti essere effettivamente devastanti, ora che tutti inseguono il miraggio dello streaming ben pagato. Ma, mentre Jay-Z, Beyoncé, Madonna e la loro compagnia di azionisti famosi lanciavano il portale Tidal (rimasto pressoché senza iscritti), la ragazza incrementava la sua busta paga dieci volte tanto. La stima di Express pari a un milione di dollari fatturati al giorno nel 2015 è iperbolica, ma un terzo di quella cifra sembra plausibile, tra indotto dell’album, contratti con marchi come Diet Coke e tour internazionale che si concluderà in Australia a dicembre.
Se esiste un’immagine per rappresentare quel saltare sul carro del vincitore cui si accennava, sarebbe giustappunto il tour. Quattro milioni di incasso a data (stavolta lo dice Forbes), ma soprattutto l’occasione per Swift di fare il censimento di chi è con lei e chi contro di lei: praticamente nessuno, interpellato tra il pubblico di un ipotetico forum, ha messo il sassetto nella ciotola dei secondi. Da Mick Jagger a Justin Timberlake, da Steven Tyler a Beck, da Alanis Morissette a John Legend, tutti a cantare o a riesumare successi vecchi e nuovi, secondo una scaletta naz-pop da prima serata di Carlo Conti unita però alla consapevolezza della padrona di casa di stare facendo lo spettacolo più figo su scala globale che si potesse fare oggigiorno.
La favola di Taylor – oggi riverita, imitata, detestata anche più ma diversamente da prima, stimata come manager della sua azienda e insieme come inaspettato mogul della discografia – ha il suo immancabile côté privato. Insieme al nuovo appartamento newyorchese, lontano dalla casa nella prateria, pure le canzoni prima indirizzate agli ex fidanzatini colpevoli di averle spezzato il cuore (John Mayer, Jake Gyllenhaal, Harry Styles, e un elenco lungo come quello delle migliori amiche) hanno ceduto il passo a un’autoironia da zitella pacificata. Da lì, studiato oppure no a tavolino, è giunto l’amore da vendere ai tabloid, sul cavallo bianco del deejay altrettanto milionario Calvin Harris: insieme hanno prodotto un giro d’affari pari a 146 milioni di dollari (sempre Forbes, dati di giugno 2015). La forza si stabilisce anche in termini di power couple, li si immagina a fare il bilancio della giornata davanti alla finestra affacciata sulla notte di Tribeca come Frank e Claire Underwood a Washington D.C.
Il potere di Taylor ha il sapore della rivincita. È l’ex bullizzata che ora può permettersi di bullizzare gli altri, è la teenager dei gattini che adesso sfida l’impero di Steve Jobs, è la principessa Disney diventata supereroina Marvel, è la sfigata che nessuno invitava al ballo di fine anno e ora diventa madrina del Met Ball (il prossimo, tema tecnologia) e si toglie lo sfizio di una cover sexy su GQ: «La mia prima volta!», scrive fiera sul suo account Instagram da 50 milioni di follower e più.
Ha dichiarato alla rivista specializzata NME, in una delle sue ultime copertine e interviste: «Penso che dovrei staccare un po’. La gente ha bisogno di prendersi una pausa da me. Voglio scrivere nuove canzoni. O forse no». Si stenta a crederle. La signorina del Potere e dell’Industria è solo all’inizio della sua nuova vita.