Vanity Fair, 25 novembre 2015
Karl Lagerfeld non ha paura dei terroristi, degli anni, della solitudine o dei fantasmi che abitano la sua casa. Autoritratto di «un vecchio bambino viziato», eccentrico e divertente, che vive per Choupette. Una gatta
Lei lo sa il tedesco? Possiamo fare l’intervista in tedesco, il mio tedesco non è male. Il francese e l’inglese li parlavo già a sei anni, e li ho sempre parlati con un accento bizzarro, ma del resto anche in tedesco ho un accento bizzarro. E parlo in modo strano, il modo di un’altra era: me ne sono andato da Amburgo da ragazzo, ho un tedesco molto più coltivato rispetto alle espressioni orribili che usano oggi. Quando vado in Tv in Germania ricevo lettere di professori che mi dicono: lei parla un tedesco bellissimo. No no no no: è semplicemente démodé, eh?».
Ho appena sbirciato gli occhi grigiobruni di Karl Lagerfeld. Il tempo di vedermi entrare nel suo studio al terzo piano della storica sede Chanel di rue Cambon, e subito si è infilato gli occhiali scuri che fanno parte della sua uniforme di ordinanza: capelli bianchi raccolti in un codino, candida camicia inamidata dal collo altissimo, giacca dal taglio impeccabile, cravatta con spilla gioiello, guanti (pitone argentato) senza dita.
Nove di sera di martedì 17 novembre, quattro giorni dopo il venerdì di sangue di Parigi. Le strade attorno a place Vendôme sono semideserte. Tra qualche ora, il blitz di Saint-Denis paralizzerà la città. Mi aspettavo che l’intervista, fissata da settimane, potesse essere cancellata. E invece Monsieur Lagerfeld è qui, al termine di una giornata di fitting della collezione Métiers d’Art che sfilerà, per la prima volta nella storia di Chanel, a Roma.
Métiers d’Art è un appuntamento annuale che si è inventato lo stakanovista Lagerfeld. Prima c’erano i due prêt-à-porter, le due haute couture, la cruise «e all’altra estremità dell’anno rimaneva un buco». È una «quasi haute couture», anche se gli abiti si possono comprare in boutique, perché attinge all’altissima manifattura – i Métiers d’Art appunto – di atélier artigianali che Chanel ha rilevato e fatto crescere negli anni, lasciandoli liberi di lavorare anche per altri.
L’evento romano del primo dicembre è ammantato nel segreto, se non per il fatto che sarà, come sempre, una sfilata di abiti tutti da lui disegnati e tutti da lui fotografati, messa in scena a Cinecittà in un set tutto partorito dalla sua fantasia, e accompagnata, spettacolo nello spettacolo, da un film – scritto e diretto indovinate da chi? – dove Kristen Stewart è la giovane Coco Chanel e Geraldine Chaplin torna nei panni della versione meno giovane. Ci sarà ovviamente un forte richiamo alla bellezza oggi ferita di Parigi. Con qualche ispirazione italiana, accenni di Roma e del Vaticano, «ma in chiave molto perversa, eh?».
Ride Karl Lagerfeld, e dietro le lenti ridono gli occhi, ed è uno dei tanti momenti autoironici di una conversazione di sorprendente rapidità verbale e mentale, punteggiata di no no no no e di eh? Sorseggia, come sempre, Diet Coke: l’alcol,
come il fumo e la droga, non gli è mai interessato. Niente in lui si atteggia al monumento che è. Da 32 anni legato a Chanel, che ha saputo rinnovare senza tradire, e portare a un successo mai avuto prima: è la seconda più lunga collaborazione nel mondo della moda, e la prima – 50 anni a disegnare per Fendi – indovinate di chi è.
Non molto si sa di lui, a partire dall’età, anche se fonti ufficiali, che lui smentisce, dicono 82. Qualcosa del suo passato familiare: il poco presente padre Otto, ricco titolare di un’azienda americana nella Germania d’anteguerra, la molto presente e amata e severa madre Elizabeth. Pochissimo della sua vita sentimentale, perché c’è un ambito intimo che ha sempre protetto. Persino per quella che è stata forse la persona più importante della sua vita – Jacques de Bascher, morto nel 1989 – Karl fece costruire un appartamento separato dalla villa di Montecarlo. Sola a dividere i suoi spazi privati, e solo in questi ultimi anni, la gatta Choupette.
Karl Lagerfeld si diverte a dipingere di sé il ritratto di un eccentrico viziato. A me ha fatto invece l’impressione di un uomo di profonda generosità e umanità, ferocemente leale alle persone che ha amato e perso.
Cominciamo da Roma?
«Dopo Parigi, è la città che conosco meglio. Con New York, sono i tre posti che amo di più. Mi piaceva tanto camminare per strada, la sera. Ormai non lo posso fare, no no no no, con i giapponesi che mi scattano le foto. Comunque, abbiamo scoperto che Coco Chanel negli ultimi anni aveva vissuto in un appartamento in via Giulia. Allora mi sono detto: abbiamo sfilato a Shanghai dove non aveva mai messo piede, perché non Roma?».
Si dice che avesse una relazione con Luchino Visconti.
«Di certo erano amici. Ma una relazione, lei dice? Visti i gusti di Luchino, non ne sarei tanto sicuro. Una notte, magari».
Anche lei ha abitato a Roma.
«Ho avuto due case. Una sul vicolo del Divino Amore, e prima ancora in piazza di San Lorenzo in Lucina, vicino alla chiesa».
Che cosa ama dell’Italia?
«Già da bambino ero affascinato da Anna Magnani. Domenica sera ho acceso la Tv, cosa che raramente faccio, per vedere le notizie sull’attentato, sono incappato in un film con Mastroianni e De Sica, Il bigamo, e mi sono fermato a guardare, perché parlo poco italiano ma lo capisco bene: che meraviglia... Quello che mi piace dell’Italia è che è rimasta italiana. Compreso il cibo, che mangio poco perché è un po’ troppo ricco per me, ma che è il miglior cibo, e costa poco. L’Italia ha mantenuto la sua identità, più di quanto abbia fatto la Francia».
Che cosa pensa di quello che è successo a Parigi?
«Ce lo dovevamo aspettare, dopo che la Francia è intervenuta in Mali. L’avevano detto che si sarebbero vendicati (tre giorni dopo questa intervista, 19 persone sarebbero morte in un attentato a Bamako, la capitale del Paese africano, ndr). Monsieur Hollande è il presidente della Francia: deve proteggere i cittadini della Francia o quelli del Mali? La cosa peggiore, comunque, è che si combatte contro un avversario invisibile. Ai tempi della Guerra mondiale si sapeva chi e dove erano i nemici. Adesso, sono dappertutto».
Nel 1991 lei si infuriò con Claudia Schiffer che non era venuta a sfilare a Parigi per via di un allarme terrorismo.
«Lei ha una memoria migliore della mia. Comunque, se hai paura smetti di vivere. Muori se è il tuo destino morire, io la vedo così. Sabato, il giorno dopo gli attentati, sono stato in boutique da Colette e alla libreria Galignani. Ho scelto di andare perché credo che in questi momenti non si debba cedere al panico. Io non ho paura».
Della cancelliera Merkel invece che cosa pensa?
«Ogni Paese avrebbe bisogno di una Merkel: lei è molto brava. Certo, la questione dei rifugiati rischia di crearle grossi problemi. Ma se di quelli che arrivano da altre parti si può pensare che vengano per ragioni economiche, sappiamo da che cosa scappano i siriani, e sappiamo che non si fermeranno. Anche perché gran parte di loro non ha difficoltà a rifarsi una vita. Sono qualificati, parlano inglese, trovano un impiego».
Che cos’è, per lei, il lavoro?
«Io non lavoro, no no no no, non scherziamo. Lavoro è quello di chi va ogni mattina a fare una cosa che non gli piace, eh? Io ho la fortuna di fare quello che amo, e di farlo nelle migliori condizioni: lo sa che i miei sono contratti a vita?».
Eppure tanti suoi colleghi si lamentano delle troppe collezioni, della pressione eccessiva.
«E mi detestano perché ho inventato questa formula delle sei collezioni e ora tante maison hanno iniziato a fare lo stesso – cosa che peraltro non mi dà fastidio, l’importante è essere stato il primo. I calciatori non si lamentano del numero delle partite, giocano e basta. I miei colleghi invece firmano un contratto e poi si lagnano. Ma se pensano che sia troppo, se non hanno abbastanza idee, il problema è loro, non mio. Forse vogliono più vita privata, io ne ho avuta tanta e l’ho avuta bella, le assicuro, non sono una persona frustrata, però ogni cosa ha il suo tempo: ora preferisco fare. E continuo a pensare che meno ti fermi, meglio fai. L’appetito vien mangiando, le idee vengono facendo: non è passando due settimane in spiaggia che arriva l’ispirazione. Non ho assistenti che disegnano al computer: disegno tutto io a mano, per spiegare alla persona responsabile di ogni dipartimento – ricami, bottoni, borse, gioielli eccetera – che cosa deve fare. Faccio fotografie, faccio libri. E mi diverto».
Non ha mai voluto essere il proprietario di un marchio?
«No no no no. E sa perché? La cosa che più aborro è la responsabilità. Già ho problemi a prendermi cura di me stesso: la responsabilità di Choupette, e del personale che lavora nelle mie case, è più che sufficiente. Io sono immaturo, un vecchio bambino viziato».
Che bambino era?
«Mi piaceva stare da solo, mi è sempre piaciuto stare da solo. Come Greta Garbo in Grand Hotel: I want to be alone (la imita teatralmente, compiaciuto della mia risata, ndr). Passavo le giornate a disegnare – alla moda neppure ci pensavo, volevo diventare un caricaturista, o un ritrattista – e a leggere. Non libri da bambino. Non giocavo mai con gli altri bambini, anzi li detestavo proprio, li trovavo stupidi. Volevo essere un adulto. Forse perché mia madre mi ha sempre trattato da adulto. Diceva: tu hai sei anni ma io no, quindi parlami pure, ma quando parli fa’ uno sforzo, se no taci».
Deve aver avuto una grande influenza su di lei.
«Sì, ma non secondo il cliché del designer che dice: mia madre ha influenzato la mia idea di eleganza e femminilità. A me ha insegnato a parlare. Non mi attaccate, perché io so come rispondere. Sa un’altra cosa che mi diceva? Che gli uomini sono superflui, perché se non sei brutta puoi fare un figlio con chiunque».
Una femminista.
«Sicuramente. Soprattutto, sapeva ridimensionare il bambino presuntuoso che ero. Mi diceva: mi assomigli, ma in peggio. Oppure: non mettere quel cappello, sembri una lesbica. Non sapevo neppure che cosa fosse una lesbica. Non sono cose che di solito si dicono a un bambino».
Un po’ dura.
«Ma mi ha fatto bene. Era una bravissima violinista, a me piaceva il piano, lei diceva: il piano non è niente. Ho fatto lezioni per un anno, finché un giorno mi chiuse il coperchio della tastiera sulle mani: a suonare non hai talento, meglio che disegni, almeno non fai rumore. Aveva ragione».
Mi racconta la sua giornata di lavoro?
«Io non lavoro, ricorda? Comunque, mi piace alzarmi presto per preparare la colazione, mia e di Choupette. La famosa Choupette che, tra l’altro, viene a Roma con me: adora Roma. Poi leggo i giornali, francesi, inglesi, tedeschi, perché voglio essere informato. Poi disegno tutta la mattina: a casa, nel mio studio privato, perché ho bisogno di concentrazione, qui mi distrarrei. Choupette è l’unico essere vivente autorizzato a entrarci. È enorme, con un tavolo grandissimo, ma così ingombro di libri che rimane giusto uno spazietto per disegnare. Eppure adoro quel caos. Devo disegnare come e quando voglio, magari mi fermo a leggere un libro e dopo un po’ ricomincio. E poi non voglio che qualcuno mi veda, perché disegnare è un lavoro sporco, indosso lunghi camicioni bianchi: con i capelli che ho, sembro un fantasma. Molti disegni li butto, e quelli che sono diventati abiti non li guardo più, neppure li tengo: se un giorno smetterò, non vorrò ricordare nulla. Li conservano nell’archivio Chanel, ed è per quello che cerco di disegnare in modo decente, non voglio che si pensi: quello lì non sapeva disegnare. Ci saranno vite molto più interessanti, ma la mia la organizzo come penso di volerla. Forse non sono poi tanto ambizioso».
Dove pranza?
«A casa mia non si cucina: il pranzo mi viene portato dall’appartamento vicino, dove stanno quelli che lavorano per me. E vengono solo quando li chiamo. I want to be alone. Nel pomeriggio mi cambio e vengo qui per i fitting e tutto il resto. Shopping ne faccio pochissimo. E vado alla mia libreria (7L, ndr). Adoro gli abiti: non finisco di stupirmi del fatto che la gente – fortunatamente per noi – continui a volere abiti nuovi. Nei miei guardaroba ho cento volte più di quanto mi serva. Prendo solo quello che c’è sopra, perché sotto neppure ci arrivo».
Li compra, i suoi abiti?
«Crede che me li regalino? Certo che li compro. Anche perché io ho questa strana cosa che non ho mai amato indossare quello che faccio io».
Il suo look è famoso.
«Devi pur essere famoso per qualcosa».
Non le viene mai voglia di cambiare?
«Non è che mi sveglio e dico: inventiamo un altro clown. Sono molto Halloween. A New York la sera di Halloween ho visto cinque-sei persone vestite da me, e molti di quelli che mi hanno incontrato pensavano che fossi qualcun altro vestito da me. Nei giorni normali non posso uscire in strada, no no no no».
Non le manca?
«Come dicono i francesi, non puoi avere il burro e i soldi del burro. Ai musei posso andare nel giorno di chiusura. E poi i cataloghi a volte sono così belli che puoi anche evitare di andare. L’ha vista al Musée d’Orsay la mostra sulla prostituzione nell’arte? No? Ecco il catalogo, glielo regalo».
Lei colleziona arte?
«Ho comprato, in passato, ma l’arte richiede spazio, e il mio è tutto preso dai libri. Ho ancora una collezione di poster tedeschi realizzati da Ludwig Hohlwein tra il 1905 e il 1915, pezzi che ho comprato per 300 dollari e oggi vanno all’asta per 600 mila. Non capisco chi aspetta che una cosa sia costosissima per comprarla. A me piace scoprire prima che tutti sappiano: per questo mi informo, leggo tutto, guardo tutto. Ma non ho l’ossessione del possesso».
Lei non è uno che conserva le cose.
«Come si fa? Ci vorrebbe un grattacielo. Manca lo spazio e manca il tempo. Come le case: ne ho comprate alcune in cui non sono mai andato a vivere. Mi piace l’idea di arredarle – ho avuto una bellissima collezione art déco, in una casa i capolavori della Secessione viennese, in un’altra gli anni d’oro della pittura danese, in un’altra ancora pezzi in lacca gialla di Bruno Paul della Werkbund, che venne prima del Bauhaus – ma poi spesso le vendo perché non ho tempo per viverle. Ho fatto campagna per il giorno da 48 ore, ma non c’è stato nulla da fare, e 24 non sono molte, se come me hai la pessima abitudine di dormirne 7-8. Che spreco».
Più pericoloso copiare gli altri o se stessi?
«Se stessi, decisamente. Facile cadere nell’errore di ripetere quello che hai già fatto e che pensi funzioni: non faccio nomi, ma capita a parecchi. Io mi annoierei a morte».
Come scongiura il pericolo?
«Appena sfila una collezione, me ne dimentico. È uno strano dono che ho».
L’ispirazione quando viene?
«A volte di notte, sotto forma di flash, quasi impulsi elettrici, che metto su carta prima ancora di sapere che cosa sono. Oppure lavorando. Se riempi il cestino delle cartacce di disegni, un’idea magari la tiri fuori. Cerco di essere curioso, di captare tutto, come un’antenna».
È migliorato, strada facendo?
«Credo di sì: come il vino. Ma non sono mai contento, ed è quello forse il segreto di tutto. Perché puoi essere stato bravo quanto vuoi, ma vale solo la prossima cosa che farai. E più passa il tempo, più ho la sensazione di essere di fronte a un muro di cristallo che non riesco a rompere, e che mi impedisce di arrivare al risultato che davvero voglio».
Come fa ad avere la pelle che ha?
«(Dandosi un buffetto sulle guance) Niente di rifatto, sa? Credo di avere buoni geni. I miei genitori e nonni e bisnonni sono campati 98, 100 anni, solo mia madre è morta prima dei 90, e solo perché non faceva quello che le dicevano i medici».
Si piace?
«Ho avuto il tempo di abituarmi a me. E mi voglio bene ora più di quando ero giovane. Soprattutto, possono annoiarmi gli altri, ma non annoio mai me stesso, c’è troppo da fare, da vedere, da leggere, da imparare. Chi dice di essere annoiato in realtà è noioso e criminale e stupido, considerato il poco tempo che abbiamo. Come diceva Schopenhauer, quando si compra un libro bisognerebbe poter comprare anche il tempo per leggerlo».
Sua madre a parte, che cos’è per lei la famiglia?
«Non sono cresciuto con le mie sorelle maggiori: quando sono morte, non le vedevo da 40-50 anni. Diciamo che non ho famiglia. Quelli che mi piacevano sono morti, gli altri non li conosco».
E l’amicizia?
«Quella è un’altra cosa: a differenza della famiglia, è una scelta. Ingrid, per esempio, era un’amica vera, e perderla è stato molto triste (parla di Ingrid Sischy, nostra International Editor, morta in luglio, e dietro gli occhiali si commuove visibilmente, ndr). Stavo girando con Kristen Stewart quando ha chiamato per dirmi: tra due giorni sarò morta, prima che mi mettano sotto sedativi voglio dirti addio e ringraziarti per il tuo affetto. Ancora mi chiedo come ho fatto a finire il film. E due giorni dopo era morta davvero».
I suoi amici spesso sono giovani.
«Sì, anche perché non ho figli. Però ho un figlioccio di 7 anni, il famoso Hudson (figlio del modello e amico Brad Kroenig, ndr). Quel piccolo uomo: sa che ieri Anna Wintour l’ha fatto fotografare per lo speciale di Vogue America sulle persone dell’anno? L’ultimo articolo di Ingrid per Vanity Fair America era proprio dedicato a lui, che le ha detto: a casa siamo in quattro, mia madre, mio padre, mio fratello e me, e c’è solo un adulto, io. È così divertente. Frequentare i giovani è il modo migliore per restare in contatto con la vita. Ho un ottimo rapporto con loro, credo dipenda dal fatto che non mi metto sul piedistallo di quello che sa».
Ho come la sensazione che, in qualsiasi gruppo si trovi, il più giovane è lei.
«Lo spero. Non so dove ho preso questa freschezza mentale. Una veggente una volta mi ha detto: per te tutto inizierà quando finirà per gli altri. Si chiamava Madame Zerakian, era turca di origini, enorme, aveva splendidi occhi azzurri e orrendi mobili finto Luigi XV. Accadde una trentina di anni fa. Senza sapere niente, mi disse che avevo in ballo un contratto importante, e che nel contratto c’era un grave errore. Aveva ragione».
Da brividi.
«A me queste cose non fanno paura. E neppure i fantasmi. Ho vissuto a lungo in una casa con una stanza dove una donna nell’Ottocento aveva partorito ventitré figli, e chissà quanti erano nati morti. In quella stanza appariva il fantasma di un uomo con un bambino. L’hanno visto anche miei ospiti. Prima ancora avevo abitato in un appartamento dove durante la Rivoluzione francese era stata uccisa un’attrice. C’era una porta durissima da aprire, ma che a mezzanotte si apriva e si chiudeva da sola. Spostai la mia camera in un’altra stanza, per non sentire il rumore. Un giorno mia madre, in visita da me, vide uscire da quella porta una donna con un velo bianco sul volto. E in un’altra casa ancora, tutti i proprietari, prima e dopo di me, sono morti per cause non naturali. Io ci ho passato dieci anni tranquillissimi».
Non ha mai avuto voglia di dividere la sua casa con un compagno?
«No no no no. Non ho mai amato quel tipo di promiscuità, eh? Anche quando qualcuno mi piaceva davvero, non abbiamo mai vissuto sotto lo stesso tetto. Non ho niente contro i matrimoni, ma non fanno per me».
E di diventare padre?
«No no no no. Ho bisogno del mio spazio e del mio tempo, e non voglio la responsabilità, preferisco essere il padrino ricco, ma poi i bambini tornano a casa dai genitori. Quelli come me non possono avere figli. Li vizierei a morte, li tratterei come Choupette, che è il centro della casa. E Choupette ha pranzato, e Choupette ha dormito, e Choupette ha fatto la pupù: grottesco. Ho messo da parte dei soldi per lei: dovesse succedermi qualcosa, chi la avrà in custodia disporrà di tutte le risorse per trattarla bene. E altri soldi li ho donati alla fondazione di Brigitte Bardot, perché non tutti i gatti hanno la fortuna di Choupette. Le due signore che se ne occupano la coccolano in modo anche esagerato, con baci, abbracci, che non sono neanche sicuro le piacciano. Io infatti non lo faccio. Però le permetto di dormire sul mio cuscino. E a volte non posso muovermi perché ha preso tutto lo spazio».
La solitudine non le pesa?
«La solitudine è brutta se stai male, se non hai di che vivere. Altrimenti è un lusso. A me serve a ricaricare le batterie lontano da tutti. Lo so che sembro un cartoon, ma non sono un cartoon pubblico».