Style - Corriere della Sera, 25 novembre 2015
Quando il cane di Jeremy Irons uccise quello di John le Carré
«Avrei voluto girare uno dei film di spionaggio tratti dai romanzi di John le Carré. Ma non ci sono mai riuscito, anche quando c’era già l’accordo con la produzione e il regista: bloccato da un veto dello scrittore. Non mi ha mai perdonato un incidente giovanile. Avevo 20 anni, ero suo vicino di casa a Londra. I nostri cani si azzuffarono e il suo ebbe la peggio. Non mi scusai perché era stato il suo ad aggredire il mio: non me l’ha mai perdonato».
I grandi attori raccontano volentieri i loro successi, i film più importanti, quelli coi quali hanno vinto premi. E Jeremy Irons ha molto da raccontare: Lolita, il film più amato. E tra i personaggi che ha interpretato non mette al primo posto Claus de Il mistero Von Bulow col quale ha vinto l’Oscar, ma padre Gabriel, il gesuita di Mission, ed Esteban Trueba de La casa degli spiriti.
In questa lunga intervista a cuore aperto a Style, però, Irons racconta tanto altro: passioni e anche delusioni, il rapporto col successo, il bisogno di solitudine: un’icona sexy, attore acclamato che, appena può, si ritira nel suo castello in Irlanda. «Sa che la prima intervista della mia vita l’ho data proprio al Corriere della Sera, quando avevo 16 anni?». Seduto a un tavolino di un bar di Central Park South, Jeremy Irons parla di politica, dell’infanzia sofferta, il rapporto con l’insularità e il mare (è nato e cresciuto sull’isola di Wight), l’immagine di seduttore, il suo stile, i film, l’amore per il cinema italiano, il momento perfetto che per lui è una passeggita con i cani nella brughiera.
Faceva già film a 16 anni?
«Macché, andavo coi miei amici inglesi a scoprire l’Europa. Avevamo pochi soldi, cercavamo di mantenerci suonando. Eravamo piuttosto bravi e un giorno, mentre ci esibivamo nella Galleria Umberto di Napoli, arrivò un giornalista del Corriere che fece un pezzo sulla nostra storia».
Con La corrispondenza di Giuseppe Tornatore (al cinema dal 14 gennaio 2016) lei è al suo terzo incontro col cinema italiano. Le piace l’Italia o ama in modo particolare i nostri registi?
«Ho interpretato film con Franco Zeffirelli, Bernardo Bertolucci e, ora, con Tornatore. Lo conoscevo per Nuovo Cinema Paradiso, ma non ci eravamo mai incontrati. Ci siamo trovati subito: a me piacciono i registi che s’innamorano dei loro progetti e lui è uno di quelli. Mi piacevano la storia, il mio personaggio, l’ambientazione. Soprattutto la solitudine dell’isola di San Giulio, nel Lago D’Orta: io ho una relazione speciale con le isole. I registi italiani hanno un talento particolare nel coinvolgere emotivamente lo spettatore nella storia. Sicuramente è un’abilità di Tornatore».
Altri registi italiani con cui vorrebbe girare un film?
«Di certo Paolo Sorrentino. Ho fatto con lui uno spot della Fiat, anni fa. Allora non lo conoscevo, poi ho visto i suoi film, da Il divo a La grande bellezza».
Lei predilige gli onesti artigiani del cinema europeo, ma va anche a Hollywood, pur non amando le grandi produzioni Usa. Subito dopo La corrispondenza uscirà, a marzo 2016, Batman v Superman: dawn of justice con lei nel ruolo di Afred, il maggiordomo dell’uomo pipistrello. Cosa l’ha convinta ad accettare quel ruolo interpretato, in edizioni precedenti, da Michael Caine?
«Preferisco l’Europa, è vero. A Hollywood, poi, tutto sta cambiando con le reti tv via cavo che impongono le loro serie di grande successo. Ma ci sono ancora grandi produzioni americane che non vanno ignorate. Batman mi è piaciuto per lo stile della regia e perché mi hanno lasciato piena libertà di partecipare alla riscrittura del personaggio. Il mio Alfred è attivissimo: più un pilota che un maggiordomo».
Mi ha detto dei suoi film preferiti, a partire da Lolita e dell’ostilità di le Carré che le ha impedito di interpretare spie venute dal freddo e talpe varie. Ha avuto altre delusioni per ruoli mancati? O film dei quali si è pentito?
«Mi sarebbe piaciuto interpretare La mia Africa, tratto dal romanzo di Karen Blixen. Ma allora Robert Redford era più forte di me al box office. Per il resto non mi sono pentito di nulla, nemmeno dei film più difficili, quelli andati meno bene: mi piace mettermi alla prova anche a costo di sbattere la faccia. Troppo facile ripetere all’infinito solo le cose che già sai fare. Poi, certo, alcuni film li ho fatti solo perché avevo bisogno di soldi: restaurare il mio castello medievale è costato una fortuna. Non le dirò quali film, non sarebbe elegante. Ma chi sa di cinema non fa fatica a trovarli».
La sua immagine di gran seduttore resiste nonostante l’età. Essere ancora un’icona sexy a 67 anni non è da molti. Ci sono riusciti Paul Newman, Sean Connery e pochi altri. C’è un segreto?
«Non mi sento un’icona, il fascino che mi attribuiscono credo derivi soprattutto dal fatto che nella mia carriera ho interpretato molti personaggi enigmatici. La gente non capisce fino in fondo se sei buono o cattivo e questo attira, coinvolge».
Lo sgudardo da seduttore, il suo stile, la cura degli abiti, sempre stivali ai piedi. Quanto c’è di costruito nel suo personaggio?
«Mi piacciono i vestiti avventurosi, un abbigliamento da viaggio, ma non da Indiana Jones. Quanto agli stivali, non c’è niente di costruito. È solo che amo andare in motocicletta. Ora vengo da un giro sui monti Adirondack, a Nord di New York. L’ultima volta che sono partito da Londra sono andato in aeroporto in moto. E quando ho finito di girare il mio penultimo film italiano, in Toscana, sono tornato da Siena alla Gran Bretagna su due ruote. È il mio modo per isolarmi dal mondo, per recuperare un po’ di solitudine».
Il bisogno di isolamento del figlio di un’isola?
«Wight è all’origine della mia insularità, certo. Ma se spesso ho bisogno di restare con me stesso – andare a vela da solo, fare lunghe cavalcate, andare in moto o in giro coi cani – è anche per via della mia infanzia difficile. I miei genitori mi mandarono in collegio, come fanno molti in Inghilterra. Ma ci andai a sette anni: troppo presto, il distacco dalla famiglia fu traumatico. Pian piano ho imparato a farcela da solo, ma sono anche divenuto un solitario. So stare con la gente, devo gestire il mo ruolo pubblico, girare il mondo. Ma spesso ho anche bisogno di ritirarmi nella mia solitudine. E di sapere, ovunque io sia, che in Irlanda c’è la mia fortezza che mi aspetta, i figli e Sinéad (Cusack, ndr), la mia straordinaria moglie. Attrice anche lei, mi capisce come nessuno».