Style - Corriere della Sera, 25 novembre 2015
Le nuove inchieste sulla morte di Gesù
I vangeli riferiscono che era l’ora nona (le tre del pomeriggio) della vigilia di Shabbat, quando Gesù esalò l’ultimo respiro. A mezzogiorno il cielo si oscurò, come se l’intera creazione si fosse fermata ad assistere alla morte di questo semplice nazareno, giustiziato per essersi fatto chiamare re dei giudei: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?» fu l’ultima sua frase.
È con questa scena che si apre Risen, «risorto», il nuovo film di Kevin Reynolds (nelle sale americane a febbraio 2016), proseguendo idealmente la storia interrotta da La passione di Cristo, il fortunatissimo (in termini d’incassi) blockbuster di Mel Gibson, che si chiudeva appunto con le sequenze «splatter» del Calvario e una Monica Bellucci nei panni di Maria Maddalena col volto pieno di schizzi di sangue.
Intorno al mistero della resurrezione Reynolds costruisce un thriller che ha per protagonisti il centurione Clavio (Joseph Fiennes) e il suo aiutante Lucio (Tom Felton). Due legionari romani al servizio di Ponzio Pilato, che ricevono l’incarico di indagare sul caso della tomba vuota e ritrovare la salma, prima che la comunità di seguaci insorga. Un noir sul filo della narrazione biblica, o meglio, i tanti fili. Perché, come ci ricorda Paolo Flores d’Arcais in Gesù. L’invenzione del Dio cristiano, (add editore) i resoconti dei Vangeli su cosa seguì la morte sulla croce sono così diversi tra loro che «conciliarli in una narrazione coerente è praticamente impossibile».
La resurrezione non è un evento di cui si possa discutere da storici, perché appartiene alla fede. Ma anche i Vangeli (con l’eccezione di un testo apocrifo) evitano di darcene testimonianza: «La risurrezione non è né rappresentata né descritta, solo presupposta» spiega il teologo Hans Küng in Tornare a Gesù (Rizzoli). I discepoli andarono incontro a morti raccapriccianti pur di non ritrattare il loro credo nella sua risurrezione. Anche perché, come ammonì Paolo nella Prima lettera ai Corinzi: «Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede». Erano stati forse loro a trafugare il suo cadavere? Oppure avevano avuto le allucinazioni?
Reynolds dà voce nel suo film alle perplessità e ai sospetti dei contemporanei. Ma non aspettatevi risposte: Pilato e Clavio si arrenderanno davanti a ciò che sfugge alla logica umana. E poteva forse esserci una conclusione diversa? È ancora possibile «aggiungere qualcosa a una discussione ormai in corso da due mila anni» si chiede il regista di Basic Instinct, Paul Verhoeven, un fervente conoscitore della materia? Oppure quattro Vangeli canonici, 30 libri biblici apocrifi più tutte le innumerevoli interpretazioni e rielaborazioni della tradizione cristiana ci rendono ormai indecifrabile la realtà di questo predicatore itinerante vissuto nella Palestina del I secolo, e chiamato Joshua bar Joseph (Gesù figlio di Giuseppe)? Di questo ebreo osservante, crocifisso dai romani per le sue idee (gli unici fatti certi), che mai avrebbe immaginato di dar vita a una nuova religione né tanto meno di fondare una Chiesa, ci sono state raccontate infinite storie, sempre diverse. Pure che non disdegnasse di fare sesso con i discepoli (sic!), che baciasse continuamente sulla bocca la sua Maddalena, o che fosse stato concepito da uno stupro. E sempre nuove versioni si aggiungono, in un esercizio che sembra ripetersi (anche per ragioni di mercato) a ogni Natale, quando le librerie si riempiono di libri-strenna sull’uomo che con la sua morte ha cambiato il corso della storia dell’Occidente. Dall’ultima inchiesta (la quarta) di Corrado Augias, Le ultime diciotto ore di Gesù (Einaudi), alle omelie di papa Bergoglio raccolte in La felicità si impara ogni giorno (Rizzoli), per restare solo alle prime novità di queste festività.
Nella realtà la fine di Joshua-Gesù dovette passare quasi inosservata. «La morte di un criminale crocifisso sul Golgota era un evento tragicamente banale» scrive lo studioso di religioni Reza Aslan nella biografia Gesù il ribelle (Rizzoli), che ricostruisce la figura di questo agitatore ebreo che due mila anni fa percorse la Galilea annunciando la prossima fine del mondo e l’avvento del regno di Dio. Il I secolo della nostra era fu un’epoca di aspettative apocalittiche tra gli ebrei della Palestina. Come tanti rivoluzionari, profeti e presunti messia del suo tempo, anche Gesù fece proseliti tra i contadini impoveriti della Giudea sotto dominazione romana. E fu giustiziato perché, con le sue idee su un nuovo regno in cui gli ultimi sarebbero diventati primi, e i primi ultimi, metteva in discussione l’ordine costituito.
Di sovversivi come lui, spregiativamente indicati con la parola greca «lestai», ladri o briganti, il prefetto Ponzio Pilato, quinto governatore di Gerusalemme, ne fece sterminare a centinaia. Ed è insieme ad altri due ribelli che il falegname di Nazaret fu condannato al supplizio della croce. Da fonti dell’epoca, come lo storico ebreo Flavio Giuseppe, sappiamo che la crocifissione veniva inflitta quasi ai soli colpevoli di sedizione; che ogni reo sulla croce aveva un cartello indicante la sua colpa; e che i cadaveri venivano seppelliti in una fossa comune, quando non dati in pasto ai cani.
E tuttavia anche se Gesù non fosse stato il «figlio di Dio», anche se non fosse risorto, il suo messaggio sarebbe ancora d’attualità in un orizzonte tutto terreno. Tant’è che in tempi più recenti se n’è fatto portatore anche un altro rivoluzionario arrivato annunciando un regno utopico, con annessa apocalisse (il comunismo). Pure lui voleva prendersi cura degli ultimi e dei deboli, tanto più che era un medico, come Gesù un guaritore ed esorcista. E come Gesù fu tradito, arrestato e giustiziato nel giro di un giorno. Si chiamava Ernesto Che Guevara.