D - la Repubblica, 21 novembre 2015
Malika Ayane è di buonumore
Malika Ayane dice che il suo gesto di ribellione recente è stato decidere di «essere il più possibile di buonumore. Smettere di avere l’ansia di arrivare secondi, o di sentirsi sempre un po’ inadeguati rispetto al contesto». A un certo punto ha avuto «un’illuminazione» e ha capito che la sua debolezza era la sua forza. Essere abbastanza mainstream perché la tua musica venga sparata a palla nei supermercati o cantata da mezza Italia sotto la doccia, ma mai abbastanza per vincere Sanremo e magari il premio della critica. «Per come voglio cantare io, è come essere nel campionato di calcio ma giocare a rugby, e stupirsi di non avere risultati da giocatore di calcio». O magari si è ricordata le parole di Riccardo Muti, suo maestro quando era una ragazzina nel coro della Scala pronta a eseguire il solito concerto di Natale per la tv: «Nel programma c’erano sia Mozart che Salieri e lui ci disse che dovevamo tifare per Salieri come per il Napoli, che tra l’altro in quel campionato non stava andando niente bene».
La verità è che a lei, «la nostra Norah Jones ma anche una che la copia e tutte le etichette che ti attaccano», ride, le cose stanno andando niente male: Naïf, il quarto album, è disco d’oro (25mila copie vendute, in un mercato musicale ristretto come quello italiano, ma globalmente sconfinato) e il tour si chiude a dicembre con qualche sold out. Disney-Pixar ha scelto lei per doppiare il commoventissimo corto Lava, che precedeva il kolossal Inside Out. I tassisti la ringraziano perché nei video ha l’apparecchio ai denti e le loro figlie si sono convinte che portarlo fa perfino popstar. I testi dell’album hanno generato tweet interpretativi, per cui una canzone pareva voler dire la fine di un amore, invece era il contrario. Duetta con Bocelli ma si prepara ascoltando in camerino Elvis Costello e i Public Enemy («Assomiglio più a Iggy Pop di quanto vorrei assomigliare a Judy Garland», aggiunge). A 32 anni e X vite, ha una figlia di 10 e una famiglia allargata che include le due adolescenti di suo marito (il regista Francesco Brugia), ma vedi che è una Millennial da come si stringe nelle ginocchia o dice fondamentalmente. Avendo visto da poco Questa è la vita di Godard, ha pensato che in fondo anche la sua ha già un buon numero di episodi, come quel film.
Il primo è stato quando ha realizzato che il suo «modo per manifestarmi al mondo, un meccanismo di default, la cosa che copriva tutto, era la voce». C’era la recita scolastica e le davano la parte da solista, si cantava in macchina e pareva microfonata. È finita a studiare canto e violoncello: «Quattrocento ragazzini superdotati cui non fregava niente di stare a fare canto corale negli anni in cui esplodeva Mtv». Ovviamente, quella surrealtà si sarebbe rivelata utilissima. Si sente fortunata a essere arrivata al pop appena in tempo, «nell’era pre-talent e quando la musica non era ancora abusata televisivamente e tantomeno in rete, tra gli X Factor e il trampolino YouTube. «Non saprei come cominciare adesso, con tutti i modi che ci sono per farcela, apparentemente... Prendiamo gli Arctic Monkeys: erano una band indie, sono nati in una cantina e li hanno scovati in rete, ma se abbiamo comprato in tanti i loro dischi e sono una band planetaria é perché li ha prodotti una major. La cosa che mi intristisce di più della musica oggi é sapere quanti brani ci sono su Internet che nessuno ha mai ascoltato». E se sei una popstar italiana, «puoi mettere il disco su iTunes Francia, ma se nessuno lo sa cosa lo metti a fare?». Perché comunque la tv resta più potente della rete: «Quando ci vai, il mattino dopo, anche se sei in un ristorante di Baden-Baden, ti dicono: “L’ho vista ieri sera!”». In tv ti guardano in tanti, su Internet in troppi. E con i talent «un ragazzino si ritrova al forum di Assago davanti alle telecamere, ovvio che sogni di farcela così». Al massimo, i suoi modelli aspirazionali erano la Sirenetta e SisterAct, dice. Ma nel jukebox del campeggio dove andava da piccola, racconta, a cercare bene c’era il pop di culto come quello inglese di Tracey Thorn, che segue ancora, tanto che ha citato l’ultimo disco sui social con l’hashtag #ésenzadubbiocolpadellemestruazioni.
Buffo come i suoi modelli di riferimento siano quelli della generazione precedente, le fai notare. «Forse perché avere vissuto X vite ha fatto sì che mi rendessi conto che c’erano donne molto più fighe degli uomini», e cita le 50-60enni di adesso. Tipo Caterina Caselli, la persona che l’ha scoperta, ma anche «l’esempio di qualcuno che dopo una carriera da cantante è tornata al business più forte di prima come discografica (con la Sugar). Forse perché, paradossalmente, negli anni 80 le donne erano più libere di essere individui prima che ruoli. Farcela era meno obbligatorio, o “di genere”. Non dico che non sia bello vedere le scritte “Feminism” sui palchi del pop. Ma come ha detto Emma Watson, idolo di mia figlia, finché carichiamo di stereotipi un sesso o l’altro, non ci sarà mai parità». L’altro modello è stata sua madre, che «quando facevo le medie faceva la colf, si é messa a studiare per diventare infermiera e adesso lavora con i malati di Alzheimer ed è quello che aveva in mente lei: «Cerca di essere soddisfatta, perché in qualunque mondo ti dovrai ammazzare di lavoro per vivere e tanto vale farlo per qualcosa che conti», le diceva. «A 21 anni, incinta, non ho chiesto il suo aiuto, ho fatto il genitore per un anno, perché a quegli sgorbi piccolissimi e delicati ti ci devi dedicare, e non aveva senso fare più cose male. Quando ho smesso di allattarla ho ripreso a cantare ai matrimoni e nei locali, poi ho trovato lavoro in uno studio dove mi pagavano per ascoltare dischi e jingle. Potrei dire che è stato diffìcile, la verità è che non lo è stato affatto».
Nutre una sconfinata fiducia nella generazione di sua figlia. «Che guarda Violetta come io guardavo Beverly Hills 90210, ma a un certo punto si stufa e dice ok, ho capito lo schema, passiamo ad altro. Lei e i suoi amici sono più individui e meno maschi o femmine. Credo dipenda dal fatto che non gli stiamo più addosso. Pazienza se non giocano in cortile ma passano ore a chattare, non è detto che il computer non li apra al mondo più di un cortile». Per gli stessi motivi crede che «ribellarsi ai genitori non sarà più la modalità per crescere (insieme alla scomparsa dei tatuaggi, probabilmente). «Per me, educare è indirizzare mia figlia verso l’indipendenza, avendo io imparato cos’è una ritenuta d’acconto prima ancora che una mancetta».
La generazione dei suoi «è quella che ha reso il divorzio normale. La maggior parte delle persone della mia età è figlia di separati. Il risultato è che c’è un’ansia minore nell’accettare la fine di un rapporto. Certo non si può generalizzare, perché restano dati abbastanza inquietanti sulle relazioni disturbate, ma è perché c’è più attenzione al fenomeno». Piuttosto, le piace che la nuova mobilità familiare generi più diversità di coppia e pure quella anagrafica abbia ragioni completamente diverse da quelle di trent’anni fa. «Ho sempre avuto fidanzati più grandi, il papà di mia figlia ha l’età del mio attuale marito, 17 anni più di me. Siamo nell’epoca dei lavori creativi e dinamici, è più facile che ci siano persone varie che hanno i tuoi interessi. Non devi più vivere a una determinata età determinate cose». Probabilmente l’apparecchio ai denti a 30 anni suonati fa parte della stessa multigenerazionalità.
La prima cosa che ha fatto quando ha potuto pagare lei è stata viaggiare. «Il vero potere d’acquisto è l’esperienza che ci si crea al di fuori del proprio quotidiano. Per l’ultimo album ho trascinato il mio povero marito a Cuba perché volevo capire le percussioni. Mi piace perfino trovarmi nei posti senza wifi dove bisogna appoggiarsi agli internet point. Rendono epica ogni parola inviata. Ma io sono una “giuria truccata”: ricordo un dopo concerto in un motel sulla statale di Termini Imerese, liquefatti, pareva il Texas, e ho pensato che stavo facendo il lavoro più bello del mondo».
La diversità l’ha conosciuta da piccola, e anche il valore del sentirsi fuori contesto che è in ogni viaggio: «In Marocco dalla nonna paterna, coi nidi delle cicogne sulle antenne e venti persone attorno a un immenso piatto, con l’unico scopo di condividere il tempo (il tema del suo ultimo album, ndr)». Ma c’era pure la diversità meno allegra del nonno materno, «che ha dovuto cambiare nome, ebreo del Casoretto, quartiere milanese distrutto durante la seconda guerra mondiale».
Le sue origini ne hanno fatto da sempre la “paziente zero” di ogni considerazione sul multiculturalismo (invitata alle tavole rotonde, alle campagne di sensibilizzazione, «io, un sociologo, uno scrittore, un rapper») e quando si arriva all’argomento giustamente sbuffa. La diversità è ovunque, «finalmente. Ma è chiaro che ci sono ancora quelli che se lo dici, ti bastonano: possiamo stare a parlare ore di razzismo, omofobia, mettiamoci la misoginia e facciamo la tripletta dell’intolleranza, perché qualunque cosa tu sia, ci sarà sempre qualcuno per cui sei un potenziale problema, ma il problema è suo», chiude, ottimista su tutto, tecnologie, famiglie allargate, eccetera.
I voli low cost, per dire, le sembrano l’equivalente geografico – e in parte l’antidoto – della musica in streaming. Un suo fan diciottenne è arrivato da Parigi in easyjet per vederla al Nazionale di Milano e andare a dirglielo in camerino, racconta lei, che lo ha ringraziato «quasi commossa, sfoderando il mio francese da tassista portoricano». E anche lì, ovviamente ha pensato che «il mondo è un posto meraviglioso».