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 2015  novembre 21 Sabato calendario

Essere vegani non salverà il Pianeta. Intervista a Lierre Keith

Tutto comincia con una ragazza di sedici anni. Ha una coscienza, un cervello, due occhi. Il suo pianeta sta venendo stirato e squartato, specie per specie. Facilmente dunque incontra il veganesimo, poiché «i vegetariani dispongono di un programma completo: puoi garantire la giustizia agli animali, agli esseri umani in povertà e alla terra se mangi cereali e fagioli. La semplicità è parte del suo fascino». Dopo quasi vent’anni di veganesimo la donna, che nel frattempo ha avuto gravi problemi di salute dovuti alla dieta, mangia il suo primo pezzo di carne «e quel gesto segna il mio entrare nella vita adulta», il momento in cui «ho smesso di combattere contro il concetto base per cui per qualcuno che vive, qualcun altro deve morire». Così racconta la sua storia Lierre Keith, coltivatrice diretta ma soprattutto scrittrice, femminista radicale e attivista sui temi del cibo e dell’ambiente (è stata arrestata sei volte per atti di resistenza politica), nel suo saggio finalmente tradotto in italiano: Il mito vegetariano: cibo, giustizia, sostenibilità. Perché non bastano le buone intenzioni (Sonzogno). Un libro che è spiazzante non solo perché «non vuole deridere i diritti degli animali né chi desidera un mondo più gentile», ma perché mentre si pone gli stessi obiettivi dei vegetariani – «salvare il pianeta, proteggere chi é senza voce, combattere la società patriarcale, l’industrializzazione e l’imperialismo» – sostiene che non è attraverso la filosofia e la pratica del veganesimo che i desideri di sostenibilità e di una distribuzione più equa delle risorse troveranno risposta: perché la verità é che «non sappiamo quanta morte ci sia in una ciotola di frutta o in un piatto di carne».
In cosa sbagliano i vegani, per lei?
«Ci sono tre tipi di vegani: morali, politici e “nutrizionali”. Il primo tipo presuppone che la vita sia una gerarchia dove pochi animali contano, ma la maggioranza non conta e neanche le piante, per non dire dei batteri e degli altri microrganismi. Questa gerarchia viene-dalla filosofia greca. I vegani politici sostengono che se tutti mangiassero piante ci sarebbe cibo per tutti. Il loro argomento è che i cereali che nutrono le mucche dovrebbero andare a nutrire le persone. È un argomento semplice e affascinante, ci ho creduto per anni, ma semplicemente non ha niente a che fare con la realtà. Il grano americano sta causando fame in tutto il mondo: il surplus viene mandato nei paesi poveri minacciando le loro economie locali, spingendo i contadini a lasciare le terre per andare nello squallore urbano. Il terzo gruppo di vegani sono i “nutrizionali”, chi crede che la dieta corretta sia a base di vegetali. Ma ci sono troppe deficienze nell’alimentazione vegana perché sia praticabile».
Lei sostiene di essersi gravemente ammalata a causa di questa dieta.
«Ci sono due problemi con la dieta vegana. Un livello alto di zuccheri, i carboidrati complessi che in realtà sono semplici zuccheri che producono alti e costanti livelli di insulina e causano il diabete di tipo 3 ma anche infiammazioni del sistema cardiovascolare. I cereali in sé, specialmente il grano, sono probabilmente causa di malattie autoimmuni. E il cancro si nutre di zuccheri. La dieta vegana non ha abbastanza proteine, manca di vitamine essenziali come la A e la D, tanto che i vegani soffrono sei volte di più di cali cerebrali e hanno il doppio o il triplo delle possibilità di avere disordini mentali. Ci sono persone che hanno ucciso i loro figli nutrendoli con una dieta vegana. Sostituire la biologia con l’ideologia può condurre a risultati tragici».
Lei afferma che il suo libro nasce con gli stessi obiettivi dei vegetariani, ma che questi ultimi non hanno gli strumenti corretti per raggiungerli. Perché?
«I valori che stanno alla base dell’etica vegana sono i soli che ci consentono di raggiungere il mondo che vogliamo: giustizia, compassione, sostenibilità. Quindi il problema non sono i valori, ma l’informazione. È necessario che le persone sappiano cos’è l’agricoltura: in termini brutali, si prende un pezzo di terra, si elimina qualsiasi cosa ci viva sopra, si distruggono i batteri e poi la si coltiva per un uso umano, distruggendo le comunità viventi che il pianeta aveva creato».
Lei sostiene che diventare adulti significa accettare la morte e che un mondo senza morte è impossibile.
«Il mio primo orto mi ha insegnato quanta morte c’era in una testa di lattuga, e non è stata una lezione facile. Perché il suolo fosse in salute, infatti, aveva bisogno di prodotti animali. Ho rinunciato perché non sopportavo di uccidere le piccole creature che mangiavano qualsiasi cosa. Ma comprare la lattuga invece di coltivarla non significava meno morte. Non c’è nessuna opzione libera dalla morte. La domanda allora non è solo cosa c’è di morto nel tuo piatto, la vera domanda è: cosa è morto perchè tu avessi quel cibo nel piatto? E nel caso dei cibi che vengono dall’agricoltura la risposta è: “tutto”».
Cosa bisognerebbe fare, allora?
«I prati non andrebbero distrutti per piantare grano che fa ammalare le mucche e anche gli uomini. I prati andrebbero restituiti ai ruminanti, che hanno una relazione simbiotica con i batteri, mantengono i prati vivi, perché per natura questi sono troppo asciutti e i batteri non sopravvivono. Ma i ruminanti senza predatori trasformerebbero lo stesso la prateria in un deserto, attraverso la sovrappopolazione e lo sfruttamento. Così la preda ha bisogno di essere mangiata, come i predatori hanno bisogno di mangiarla. Siamo tutti predatori finché non diventiamo prede. Nessuno esiste fuori da una comunità, siamo ciascuno parte dell’altro, sia nell’atto del mangiare che in quello di essere mangiati. Ma se gli animali sono allevati correttamente, la comunità di vita viene ristabilita. Cercare una strada che non preveda morte non si può: la morte e la vita sono lo stesso processo».
Ha ricevuto minacce per ciò che ha scritto?
«Ricevo mail piene di odio ogni giorno. Sono feroci, misogine, minacciose. Sono stata assaltata dai vegani durante una conferenza. Non capirò mai perché questo tipo di comportamento è applaudito da persone che rivendicano una morale fondata su non violenza, compassione e giustizia. Se non mi piace un libro, ne parlo male e stop. Non è questa la risposta corretta, in una società pluralista?».