il Giornale, 25 novembre 2015
«L’attore meno fa meglio è». I segreti di Giancarlo Giannini
È un attore, un grandissimo attore, un’icona del cinema italiano. Anzi no, è un elettrotecnico. Anzi no, è un cuoco. O forse un fotografo. «Sono una mente tecnica io», precisa Giancarlo Giannini sul palco del Manzoni Cultura, intervistato da Edoardo Sylos Labini. Il pubblico si diverte mentre lui parla per dieci minuti della preparazione del pesto come se si trattasse di imbastire i movimenti di un quartetto d’archi di Haydn. Il basilico buono è quello della Liguria, foglioline piccole, dalla Toscana in giù sa già di menta. «La patata calda si fonde con la fogliolina fredda e s’attacca alla trenetta». Giancarlo Giannini al cinema ha interpretato il buono, il cattivo, e tutto quello che c’è in mezzo, dal sex symbol politicamente scorretto (in Travolti da un insolito destino con Mariangela Melato) all’eroe antimafia Paolo Borsellino, ha doppiato da Jack Nicholoson (Shining) ad Al Pacino. Ma la sua biografia (raccontata tra l’altro in un bel libro: Sono ancora un bambino ma nessuno può sgridarmi, Longanesi, 285 pp, 16 euro) è fatta di un mare di cose febbrili. Ecco le parole dal palco.
Non chiamatemi attore, sono un perito elettronico. «Dopo il diploma di perito industriale mi chiamarono in Brasile, nel centro in cui si studiavano i primi satelliti artificiali. Ma dovevo fare il militare. Scrissi in Brasile e ottenni di andarci l’anno dopo. Poi a militare mi riformarono come primo nipote di vedova di guerra. Un amico mi disse: visto che non hai niente da fare per un anno, perché non fai la selezione per l’Accademia? Era la Silvio D’Amico a Roma. Su 900 persone ne presero 25. Io c’ero: mi dettero una borsa di studio di 40 mila lire al mese. Ma non ho finito l’accademia. Ero talmente bravo che cominciai a lavorare subito. Facevo il sogno di una notte di mezza estate con Carla Fracci e Gianmaria Volontè. Tutti applaudivano. Pensai: Che mestiere curioso. Continuai. Sempre con l’idea di andare in Brasile l’anno dopo. E ancora ce l’ho quell’idea. Mi sento un perito elettronico. Io sono un perito elettronico». Il giubbotto parlante e le invenzioni rubate. «Nel film Toys con Robin Williams. Il giubbotto che parla è stato creato da me. Per i miei figli costruii un giubbotto con altoparlanti nascosti, dove muovendosi si creavano dei suoni, i tamburi, i piatti. Si chiama The musical Jacket, l’ho brevettato negli Stati uniti. Ma mi sono stati rubati dei progetti, per esempio un guanto che muovendo le falangi riesce a pilotare delle note musicali con una radiotrasmittente. Per trovare il modo di trasformare i movimenti in suono con degli switch ho lavorato 18 giorni e 18 notti. Magnifico lavorare così: sei solo al mondo e pensi a qualcosa che non c’è».
Gli sganassoni a Mariangela Melato. «Mariangela ha fatto del cinema e del teatro meraviglioso. In Travolti da un insolito destino si fece male al primo giorno di lavorazione, aveva 12 punti al piede. Ma ho insistito perché non fosse sostituita. Le corse, i campi lunghi di Mariangela sono stati fatti da controfigure».
Actors studio? Una grande sciocchezza. «Gli americani hanno forzato molto il metodo Stanislavskij. Dicono entra nel personaggio. Ora, se faccio Romeo posso sì innamorarmi di Giulietta e dire delle battute col cuore. Ma quando prendo il veleno e muoio devo stare un quarto d’ora fermo mentre Giulietta si suicida. Devo fingere. E se fingi la morte, tanto vale fingere tutto il resto».
L’esperimento russo. «Presero un attore famoso, Cerkasov, e lo ripresero mentre si guardava la mano. In montaggio accostarono questo primo piano del suo volto a una donna morta, a un piatto di pasta, un precipizio, una pistola. Il pubblico guardando sempre lo stesso primo piano notava dei cambi di espressione. Diceva Ma hai visto quando guarda la donna morta? E invece era sempre la stessa faccia. Dico agli allievi: Non siete voi a recitare, è il pubblico che recita per voi. L’attore meno fa meglio è».
Coi sassi nelle scarpe. «Fare l’attore è complicato, bisogna usare tutti i sistemi, anche quelli più semplici. Chiesi a Dustin Hoffman: Come hai fatto a fare la camminata di Un uomo da Marciapiede? Mi rispose: Ho messo dei sassi appuntiti in una scarpa».