il manifesto, 25 novembre 2015
Xylella, una storia di malapolitica
A Torchiarolo, in provincia di Brindisi, i fusti degli ulivi millenari si intrecciano e creano sagome che non hanno nulla da invidiare alle sculture di Rodin. Dietro questo paesaggio di giganti plurisecolari che attirano l’attenzione dei forestieri e dei turisti, c’è un’economia olivicola che da S. Maria di Leuca a Torre Maggiore raggiunge i 492 milioni di euro l’anno, l’equivalente del 35% dell’olio d’oliva nazionale e pari a 183 mila tonnellate per 190 mila aziende.
La pianta di ulivo coltivata dagli antichi Messapi nel VIII secolo a. C., oltre ad essere una risorsa paesaggistica e un polmone verde che incrementa il fascino del tacco peninsulare è una vitale risorsa economica, un patrimonio che da sempre ha garantito “autonomia” e “autosufficienza”, ma anche “misura”, nello stile di vita profondamente meridiano che una produzione tanto lenta come quella olivicola richiede.
Sappiamo bene, tuttavia, che questi retaggi sono scomodi nel contesto di un’economia globalizzata, impegnata nella spartizione radicale di aree di produzione e aree di consumo per gestire al meglio prezzi e andamenti di mercato. Così anche alla Puglia, in bilico tra dispositivo globale e malapolitica locale, si chiede di sacrificare a questo processo parte della propria identità.
La de-agricolturizzazione della terra dei fumi dell’Ilva, si deve ad un soggetto sconosciuto nello spazio comunitario: la Xylella fastidiosa, un batterio fitopatogeno che a detta degli esperti ottura i vasi xylematici, ossia le “condutture” che trasportano la linfa dalle radici alle foglie dell’ulivo, e provoca un imbrunimento della chioma. Questi sintomi del CoDiRO (complesso del disseccamento rapido dell’olivo) tuttavia, sono sempre stati attribuiti ad altri fattori: lepidotteri, funghi, uso improprio di pesticidi e diserbanti.
Più in generale, però, si possono assegnare all’incuria nei confronti delle piante. Questo dato non ha inciso sulle opinioni del Cnr (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e dell’università di Bari, che hanno attribuito, senza troppe certezze scientifiche, il CoDiRO alla Xylella fastidiosa, batterio incluso nella lista stilata dall’Ue sugli organismi nocivi da quarantena. La presenza sul suolo italiano, infatti, attiva una serie di procedure – in larga parte economiche – per ottemperare alla sua epurazione. Dietro le precauzioni prese vengono stanziati fondi e rimborsi per le amministrazioni e gli organi competenti in materia di monitoraggio e analisi dei campioni. Sono già stati erogati 269 mila euro al Cnr di Bari, ma la maggior parte dei soldi, tuttavia, va all’Arif – Agenzia Regionale per le Risorse Irrigue e Forestali, una società partecipata dalla Regione e da sempre al centro del dibattito per sprechi e consulenze d’oro.
I rubinetti finanziari vengono aperti senza alcuna certezza, ed è l’Autorità europea per la sicurezza alimentare a segnalare che «non esiste al momento alcuna evidenza scientifica che comprovi l’indicazione che alcuni funghi, piuttosto che il batterio Xylella fastidiosa, siano la causa primaria della sindrome del disseccamento rapido degli ulivi». La situazione sembra molto diversa rispetto allo stato emergenziale invocato dalle autorità, se pensiamo che è solo dell’1,8 la percentuale di alberi su cui si riscontra il batterio Xylella, anche se un effettivo disseccamento è presente in fase statica e non espansiva, a macchia di leopardo e non a macchia d’olio. Si pensa quindi che il CoDiRO sia da attribuire ad una sinergia di concause e non alla semplice Xylella.
Sono sempre di più i contadini e gli studiosi che, attraverso dei metodi tradizionali, con il concime biologico, il rame, lo zinco, la calce e un’accurata potatura, riescono a dare nuova vita a quegli ulivi prima bollati dal corpo forestale come infetti. E sono recentissime le testimonianze, dopo 5 mesi di sperimentazioni su alberi infetti, finanziate dalla Copagri (Confederazione dei produttori agricoli), dei professori Antonia Carlucci e Francesco Lops: «La conta delle foglie e la valutazione dell’indice della clorofilla hanno dimostrato che le piante hanno superato la presenza del batterio e che riescono a sopravvivere» a riprova che la Xylella non implica la morte dell’ulivo, ma che vi convive.
Intanto però, mentre si ricerca, i tagli degli alberi sono cominciati dal febbraio scorso, quando il nostro ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina ha investito Giuseppe Silletti, già comandante del Corpo Forestale della regione Puglia, della carica di Commissario Tecnico straordinario. Il commissario ha sottoposto all’attenzione del Dipartimento della Protezione Civile un piano di contenimento per far fronte all’emergenza Xylella. Il piano Silletti, riconfermato a settembre – con tanto di indennizzo per i privati disposti a tagliare i propri ulivi – prevedeva l’abbattimento degli alberi infetti e di quelli presenti in un raggio di 100 metri (dopo un ricorso al Tar, però, il Piano deve limitarsi a tagliare solo gli alberi infetti), nonché il monitoraggio intensivo, l’eliminazione delle specie erbacee infestanti mediante l’uso di diserbanti, e l’applicazione di trattamenti insetticidi.
Di fronte a questa manovra emergenziale si insinuano le ombre di speculazioni edilizie, agromafie e distruzione delle risorse del territorio. L’emendamento presentato dal Consigliere Sergio De Blasi (Pd) – che rende inedificabili per 15 anni i terreni colpiti dal batterio – e approvato dalla commissione agricoltura, lascia aperto ancora qualche dubbio. Di fatto il documento prevede che non si possa edificare laddove siano stati abbattuti gli alberi affetti da Xylella, che siano piante secolari o meno. Ma dato che il CoDiRO non è ancora stato attribuito a questo batterio, semmai vi fosse una smentita e la colpa ricadesse sui funghi o altri elementi patogeni, allora nulla impedirebbe il colare del cemento.
Non si dirada ugualmente la paura che l’emendamento possa essere cancellato ben prima dei 15 anni stabiliti (con un tipico colpo di coda di ferragosto), così da aprire una corsa all’oro sul territorio. Inoltre, la legge prevede una clausola che fa salva la «realizzazione di opere pubbliche necessarie alla salvaguardia della pubblica incolumità e dell’ambiente». Insieme a resort e villaggi turistici, entra in ballo anche la Tap (Trans Atlantic Pipeline), il gasdotto lungo 870 km che sbarcherà a San Foca (Marina di Melendugno), portando 10 miliardi di metri cubi di gas per 50 anni dall’Azerbaijan in Europa. Si aggiunge, come da rapporto Coldiretti-Eurispes, l’interesse nutrito dalle autorità per l’allargamento dell’autostrada SS275 da Maglie a Leuca «che sbrana 15 mila alberi d’ulivo». Ma immaginiamo ancora queste terre liberate dai fusti dell’ulivo quante altre colture ben più remunerative e intensive potrebbero ospitare, per la gioia di latifondisti e multinazionali.
Il popolo pugliese, però, non resta indifferente e si organizza. Le associazioni, i comitati, i liberi cittadini che hanno messo da parte le loro inclinazioni politiche sotto la bandiera del “Popolo degli Ulivi” girano per le città e informano le popolazioni locali di quello che sta accadendo. Attraverso una sinergia tra via legale e lotta radicale, tentano i ricorsi al Tar e occupano spazi sul territorio consapevoli che la loro presenza può fermare l’abbattimento. Nell’indifferenza di una classe intellettuale che tenta il recupero forzato, a quarant’anni dalla morte, del pensiero pasoliniano, c’è una parte della popolazione che resiste alla compressione dei diritti, forte di una coscienza politica atavica di cui i pugliesi avevano già dato dimostrazione nel 1949. Come i braccianti di Arneo che lottarono contro i latifondisti per la concessione delle terre incolte, oggi i contadini e gli attivisti delle associazioni insieme, senza alcun omaggio a Pasolini, echeggiano il suo impegno civile come custodi, stavolta materiali, di una “Terra di lavoro” in via d’estinzione.