la Repubblica, 25 novembre 2015
Vinicio Capossela ricorda Dan, il figlio di John Fante, morto lunedì
Keep writing... Keep writing… così scriveva uncle Dan, lo zio d’America, all’amico poeta italiano Vincenzo Costantino, incoraggiandolo, come un boxeur. Dacci dentro, qualsiasi cosa accada, picchia sui tasti… In questo Dan Fante – scomparso lunedì a Los Angeles all’età di 71 anni – portava avanti la missione del padre, John, spingendo, incoraggiando alla scrittura, foraggiando l’epopea, la grande impresa di diventare scrittori, come soltanto il grande spaccone Arturo Bandini sapeva fare. Era forse il cromosoma. Leggevi Fante, e volevi essere anche tu Arturo Bandini, come scriveva Bukowski nella memorabile prefazione che segnò la riscoperta di Fante, per l’editore Black Sparrow. “Non chiamarmi figlio di puttana, chiamami Arturo... Arturo Bandini!”. E anche il lettore leggendolo, veniva permeato dal desiderio di diventare scrittore, come si desidera diventare grandi campioni di baseball, o come si desidera avere una bicicletta o un paio di guantoni da box. Diventare scrittori! Non per evadere dalla propria vita, ma per salvarla, per trasferirla in una dimensione sensata, in cui tutto il dolore, la fatica, la speranza, la disillusione che ci vuole a spingere avanti la vita sia messa in salvo, come in una teca con le coppe della società polisportiva di appartenenza. Un lavoro manuale, quasi di cazzuola da muratori, ben riuscito come un buon lancio, come uno strike al bowling. Keep writing...
Dan Fante diceva di avere iniziato a scrivere dopo i quarant’anni, prima era stato troppo impegnato nella battaglia con la vita. Sul braccio si era tatuato la data di morte del fratello Nick, il maggiore, quello che prendeva il nome dal nonno Nick, Nicolas Fante, il protagonista di The Brother Wood Of the Grape. L’attaccamento a quella famiglia d’origine faceva scrivere a John che era sua indole e destino l’essere figlio anzi che padre. Ma padre lo fu, e il suo demone, il suo attaccamento alla scrittura passò nelle vene, di padre in figlio in spirito santo, come le colpe bibliche. Dan attraversò quei demoni, vide morire il fratello, e il tatuaggio se lo fece per ricordarsi ogni giorno di non toccare più nessun tipo di alcol. Quei demoni imparò a farseli amici, gli diede un nome e li affidò alla scrittura. Lavorò duro e scrisse poesie meravigliose. Furono tradotte e pubblicate anche in Italia, e in Italia arrivò anche lui. Riconobbe il paese come proprio e l’amò al punto da chiamare il suo ultimogenito Michelangelo Giovanni Fante. La stessa ostinazione salvifica per la scrittura la applicò all’amore... You have to practice! Mi diceva una volta, vedendomi soffrire...You have to practice ! Se il primo matrimonio non funziona, prova con il secondo, e se va male insisti ancora, ti devi esercitare, fino a che non va bene. Dan Fante si è esercitato con profitto. Ha lasciato in tutti quelli che lo hanno conosciuto l’affetto che si prova per uno di famiglia. La seconda famiglia, quella affidata all’epica e alla poesia. Una persona di straordinaria sensibilità e amor di vivere. Poteva scrivere dell’inferno senza mai perdere la luce, la speranza, senza mai perdere di vista il Paradiso. You have to practice… Una di quelle persone che sapevano lasciare dietro di sé tracce di gentilezza per ricordarne il passaggio. Molliche di gesti attenti per potere ritrovarsi alla fine lungo il cammino dell’amicizia. La fine lo ha colto dopo un male violento, terribile che lo ha consumato in pochi mesi. Che gli ha impedito il consueto viaggio in Italia che amava. La morte non è mai stata gentile con i Fante. Che il cielo almeno gli sia lieve.
Grazie Dan Fante, angelo gentile a cui non è stata risparmiata né la caduta né il volo.