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 2015  novembre 25 Mercoledì calendario

Un noir sull’Italia coloniale. Carlo Lucarelli parla del suo ultimo libro

Ci sono libri, episodi ed incontri che all’inizio sembrano niente, poi invece scopri che ti hanno cambiato la vita. Succede a Carlo Lucarelli, il maestro riconosciuto del neo noir italiano rinato all’alba dei Novanta e ora diventato un pilastro dell’editoria (per qualità e quantità). Un romanzo, o meglio un autore: «Mi innamorai di Scerbanenco a 14 anni», un film: «Non ricordo il titolo ma era un poliziesco di Damiano Damiani e sognai un giorno di raccontare quelle vicende», un episodio: «I crimini della Uno Bianca mi fecero virare il modo di scrivere». Poi c’è un incontro, quello con la moglie Yodit nata in Eritrea: «In realtà l’ho conosciuta dopo il mio primo capitolo africano L’ottava vibrazione.
Ma scoprire la storia della sua famiglia mi ha spalancato le porte di un mondo fantastico». L’ultimo è Il tempo delle iene dove tornano il carabiniere Piero Colaprico e il brigadiere indigeno Ogbà, una sorta di Holmes e Watson (ma non si sa bene chi è l’uno e chi è l’altro) che indagano nel complicato mondo della più antica delle nostre colonie: l’Eritrea. Un libro pieno di personaggi, come mai con Lucarelli, questa volta capace di farli muovere con abilità geometrica regalando alla narrazione un’aria epica. Una trama complessa ma repentina e un linguaggio così ricco e ricercato – nella precisione dei termini indigeni, ma non solo – tanto da diventare forse l’elemento più sorprendente per i lettori.
Lei alterna passato e presente nei suoi romanzi, come decide il tempo?
«Ho iniziato come scrittore storico: la trilogia di De Luca, poi la Uno Bianca mi ha convinto che non sempre il passato è la chiave giusta per raccontare la realtà».
Siamo al terzo capitolo della saga, da dove le è venuta l’ispirazione?
«Sono cresciuto in piazzale Bottego e il nome dell’esploratore italiano mi ha sempre incuriosito. Da tempo mi ballavano in mente immagini, costoni desolati da cui spuntano cavalieri armati, truppe che avanzano nel niente: tipo indiani e cowboy. Poi, iniziando a studiare i documenti, ho scoperto che Custer e i sioux non c’entravano niente: era tutto più complesso. Dopo L’ottava vibrazione e Albergo Italia mi sono rimasti così tanti spunti che non potevo smettere».
L’Italia che lei racconta sembra lo specchio di quella di oggi. Che Paese era?
«Uguale a oggi, stessi pregi e difetti ed è la scoperta che mi ha colpito di più. Ho studiato a fondo i diari del governatore Ferdinando Martini: le similitudini sono impressionanti, persino le parole per descrivere le situazioni sono identiche. Ci sono i tagli da fare perché mancano i fondi, c’è la corruzione, c’è la mafia. Purtroppo pare che non impariamo niente dagli errori del passato. Anche perché quel periodo è come cancellato dalla nostra memoria: associano il colonialismo a Mussolini ma non è così».
Ancora una coppia, come in molti dei suoi romanzi.
«All’inizio c’era solo Colaprico, poi come spesso accade serve una molla narrativa e l’alter ego fa muovere la trama. Ma Ogbà è cresciuto pagina dopo pagina, si è alimentato dei racconti di mia moglie su suo nonno, ho parlato con i suoi parenti e alla fine non si capisce più chi è il vero protagonista del libro: se lui o il carabiniere».
C’è pure l’omaggio a Holmes.
«Sì, volevo scrivere un giallo antico alla Conan Doyle appunto ma ancora una volta non ci sono riuscito: le menti delle persone, il lato oscuro mi attirano più della trama lineare omicidio, indagine colpevole. Ma mi piaceva comunque citare l’investigatore».
C’è un linguaggio molto curato con continui riferimenti all’idioma locale: perché questa scelta stilistica?
«La lingua è diventata una chiave per capire, mi è servita per raccontare i rapporti tra i personaggi: soprattutto tra gli italiani e gli eritrei. Nel libro volevo far dire ad uno: fate cose inutili voi italiani. Mia moglie mi ha spiegato che una frase del genere non esiste, è impossibile da tradurre nel loro vocabolario. E poi approfondire questo aspetto mi ha aiutato a dare spessore a Ogbà, a entrare nella sua testa, a vivere la contraddizione della sua esistenza. Lui è orgoglioso e felice di essere un carabiniere, ma, ogni minuto della sua vita, sa di essere un colonizzato e questo lo porterà a vivere un conflitto interiore molto forte».
Deduzione: è già pronto un altro capitolo.
«Elementare Watson».
La serialità non la annoia?
«No, il trucco è passare da una serie all’altra: il prossimo capitolo infatti sarà su De Luca, che tornerà nell’Italia degli anni Cinquanta».
Anche se lei sorride e nega, le tocca il ruolo di caposcuola del noir italiano. Genere di successo ma, proprio per questo, spesso accusato di scarsa qualità. Come risponde?
«È una polemica che proprio non capisco. Baricco è forse uguale a De Carlo; Lagioia a Veronesi? Se noi chiamiamo il loro genere “bianco”, è possibile assimilarli tutti in un giudizio globale? Ovviamente no. E allora è sbagliato giudicare il noir come un genere monolitico».
Ma voi date l’impressione di essere una scuola.
«Certo è vero, abbiamo dimostrato che ci si può divertire tutti assieme. Quando abbiamo iniziato a presentarci a vicenda i libri ci guardavano come matti e invece i lettori ci hanno seguito e capito. Ma dentro questa tribù ognuno ha le sue caratteristiche. E poi scusi un’osservazione».
«Se lei sfoglia un giornale quante vicende positive trova? La cronaca giudiziaria domina la nostra vita, l’Italia purtroppo è una fonte inesauribile di ispirazione per chi ha voglia di indagare i suoi lati oscuri. Con i nostri libri abbiamo anticipato molte delle inchieste che sono arrivate dopo: penso a Carlotto con il Nordest, a De Cataldo e Bonini con Suburra. Quando nei primi anni Novanta scrivevo storie di Mafia in Emilia un funzionario della Rai mi disse: cerchi di proporre cose un po’ più attuali. Abbiamo visto dopo quanto lo erano».